A fronte dei grandi gruppi e partenariati che hanno bisogno di nuovi prodotti, esistono le
piccole realtà che necessiterebbero di risorse per sviluppare i loro progetti.
L'imprenditoria scientifica si sta spostando verso l'iniziativa dei grandi
"intuitori", che si confrontano con la goffaggine dei giganti dell'industria
farmaceutica. Per capire come si sta muovendo il settore, bisogna studiare dove
si stanno dirigendo le start-up. Per esempio, un tema dilagante è quello
dell'Alzheimer. I figli del "baby boom" stanno invecchiando e i costi
sanitari nel 2040 saranno rappresentati per il 25% dal morbo di Alzheimer. Sono
stati spesi miliardi di dollari nella ricerca di farmaci che avrebbero dovuto
attivare anticorpi contro l'accumulo di placche di proteina beta-amiloide, ma oggi
la comunità scientifica solleva seri dubbi e perplessità nel merito. Ma la
ricerca è viva e non si ferma. La Yumanity Therapeutics ha raccolto 45 milioni di
dollari da dedicare interamente alla ricerca di nuovi farmaci per l'Alzheimer ed
altre malattie neuro-degenerative. Annexon Biosciences, una spin-out della Stanford
University, ha raccolto 44 milioni di dollari per finanziare una ricerca che va
nella direzione di fermare il morbo attraverso l'inibizione dell'azione del
sistema immunitario sulle sinapsi, fondamentali per il nostro funzionamento
neuronale. Alla fine del 2016 la EIP Pharma ha dimostrato che un vecchio
farmaco anti-infiammatorio ha migliorato le attività cognitive e mnemoniche in
un piccolo campione di pazienti con lieve patologia di Alzheimer. Nella ricerca
farmacologica i ricercatori hanno in passato (?) sviluppato una visione
"statica" del bersaglio molecolare. I chimici tendono a trovare
composti che si leghino con l'obiettivo specifico. Il mondo scientifico, però,
sta evidenziando che questi bersagli sono dinamici, fluidi e si trasformano
continuamente. La ricerca è costosa e ottimizzarla è fondamentale. Uno dei
motivi per i quali i cittadini non vedono di buon occhio le case farmaceutiche è
che i prezzi dei farmaci sono elevati e i loro problemi di salute non trovano
(sempre) una soluzione soddisfacente. Si sa, la scienza ha i suoi tempi. Per
esempio, la scienza del microbioma ha
preso d'assalto la biologia degli ultimi anni. Questo è accaduto in gran parte
grazie agli strumenti di sequenziamento del DNA che ci stanno dando una
comprensione sempre più chiara di come noi come esseri umani coesistiamo con le
migliaia di miliardi di batteri nelle nostre viscere e sulla nostra pelle. Purtroppo,
se il nostro sistema immunitario va in tilt e decide che questa coesistenza non
va più bene, attacca i tessuti sani, causando le malattie autoimmuni. Alcune
ricerche suggeriscono che la composizione batterica del nostro intestino
influenza il nostro umore, aprendo interessanti prospettive per il trattamento
della depressione e di altre forme di disturbo del sistema nervoso centrale. Ma,
adesso, torniamo al tema iniziale. Chi paga la ricerca? Come possono
incontrarsi capitali e ricercatori? Diciamo che parte della ricerca è
finanziata dalle nostre tasse, che alimentano specifici (micro) fondi. Il
meccanismo è che quando un'università fa una scoperta, la brevetta e le aziende
interessate a sviluppare la nuova scoperta (o invenzione) pagano per ottenerne
la licenza. Il problema è che queste ricerche richiedono una quantità
straordinaria di lavoro e, quindi, di fondi. Questo spiega i finanziamenti
delle farmaceutiche alla ricerca universitaria, con l'accordo che il
finanziatore, legittimamente, ne possa sfruttare le ricadute commerciali. Quindi
il meccanismo funziona? Non proprio, il tema è che spesso le farmaceutiche
hanno pagato una miseria per queste licenze, a fronte di uno sfruttamento
commerciale straordinario. C'è da dire che qualcuno comincia a fare la voce
grossa. Harvard, in particolare, a marzo del 2016 si è fatta anticipare 20
milioni di dollari da Merck per il diritto di sviluppare un insieme di farmaci
per la leucemia mieloide acuta. Staremo a vedere.
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