venerdì 10 febbraio 2017

Pharma & Biotech: No soldi, no party. Ovvero, chi paga la ricerca?

A fronte dei grandi gruppi e partenariati che hanno bisogno di nuovi prodotti, esistono le piccole realtà che necessiterebbero di risorse per sviluppare i loro progetti. L'imprenditoria scientifica si sta spostando verso l'iniziativa dei grandi "intuitori", che si confrontano con la goffaggine dei giganti dell'industria farmaceutica. Per capire come si sta muovendo il settore, bisogna studiare dove si stanno dirigendo le start-up. Per esempio, un tema dilagante è quello dell'Alzheimer. I figli del "baby boom" stanno invecchiando e i costi sanitari nel 2040 saranno rappresentati per il 25% dal morbo di Alzheimer. Sono stati spesi miliardi di dollari nella ricerca di farmaci che avrebbero dovuto attivare anticorpi contro l'accumulo di placche di proteina beta-amiloide, ma oggi la comunità scientifica solleva seri dubbi e perplessità nel merito. Ma la ricerca è viva e non si ferma. La Yumanity Therapeutics ha raccolto 45 milioni di dollari da dedicare interamente alla ricerca di nuovi farmaci per l'Alzheimer ed altre malattie neuro-degenerative. Annexon Biosciences, una spin-out della Stanford University, ha raccolto 44 milioni di dollari per finanziare una ricerca che va nella direzione di fermare il morbo attraverso l'inibizione dell'azione del sistema immunitario sulle sinapsi, fondamentali per il nostro funzionamento neuronale. Alla fine del 2016 la EIP Pharma ha dimostrato che un vecchio farmaco anti-infiammatorio ha migliorato le attività cognitive e mnemoniche in un piccolo campione di pazienti con lieve patologia di Alzheimer. Nella ricerca farmacologica i ricercatori hanno in passato (?) sviluppato una visione "statica" del bersaglio molecolare. I chimici tendono a trovare composti che si leghino con l'obiettivo specifico. Il mondo scientifico, però, sta evidenziando che questi bersagli sono dinamici, fluidi e si trasformano continuamente. La ricerca è costosa e ottimizzarla è fondamentale. Uno dei motivi per i quali i cittadini non vedono di buon occhio le case farmaceutiche è che i prezzi dei farmaci sono elevati e i loro problemi di salute non trovano (sempre) una soluzione soddisfacente. Si sa, la scienza ha i suoi tempi. Per esempio,  la scienza del microbioma ha preso d'assalto la biologia degli ultimi anni. Questo è accaduto in gran parte grazie agli strumenti di sequenziamento del DNA che ci stanno dando una comprensione sempre più chiara di come noi come esseri umani coesistiamo con le migliaia di miliardi di batteri nelle nostre viscere e sulla nostra pelle. Purtroppo, se il nostro sistema immunitario va in tilt e decide che questa coesistenza non va più bene, attacca i tessuti sani, causando le malattie autoimmuni. Alcune ricerche suggeriscono che la composizione batterica del nostro intestino influenza il nostro umore, aprendo interessanti prospettive per il trattamento della depressione e di altre forme di disturbo del sistema nervoso centrale. Ma, adesso, torniamo al tema iniziale. Chi paga la ricerca? Come possono incontrarsi capitali e ricercatori? Diciamo che parte della ricerca è finanziata dalle nostre tasse, che alimentano specifici (micro) fondi. Il meccanismo è che quando un'università fa una scoperta, la brevetta e le aziende interessate a sviluppare la nuova scoperta (o invenzione) pagano per ottenerne la licenza. Il problema è che queste ricerche richiedono una quantità straordinaria di lavoro e, quindi, di fondi. Questo spiega i finanziamenti delle farmaceutiche alla ricerca universitaria, con l'accordo che il finanziatore, legittimamente, ne possa sfruttare le ricadute commerciali. Quindi il meccanismo funziona? Non proprio, il tema è che spesso le farmaceutiche hanno pagato una miseria per queste licenze, a fronte di uno sfruttamento commerciale straordinario. C'è da dire che qualcuno comincia a fare la voce grossa. Harvard, in particolare, a marzo del 2016 si è fatta anticipare 20 milioni di dollari da Merck per il diritto di sviluppare un insieme di farmaci per la leucemia mieloide acuta. Staremo a vedere.

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