sabato 17 dicembre 2016

La relazione dialettica in azienda tra il CEO e il CFO

Business e numeri, un tema già affrontato in un altro articolo di questo blog ("Qual è il miglior background per un CEO, numeri o vendite?"), ma che qui vorrei riproporre da una diversa prospettiva. Come si conciliano "crescita" e "profitto"? E, soprattutto, chi detiene le leve che determinano le priorità in azienda? L'assunto in questo articolo è che la differenza tra management e proprietà sia chiaro ed inequivocabile o che, quanto meno, la proprietà abbia una "naturale" tendenza a distinguere il ruolo in cui indossa il cappello del manager da quello in cui indossa quello del proprietario. Questa precisazione è fondamentale, perché se i ruoli non sono "tecnicamente" distinti, ogni decisione presa dal "padrone" è buona, anche se porta al fallimento l'azienda. Ma torniamo a bomba, si diceva, chi determina in azienda quando la crescita sta penalizzando troppo i profitti e quando, invece, una dilazione dei profitti è strategica per lo sviluppo? Normalmente, sono decisioni che si prendono in fase di pianificazione e la proprietà le sposa da subito o le rigetta, in base alle proprie considerazioni sulla redditività attesa. Ma, aziendalmente parlando, chi "governa" la gestione manageriale del tutto? Il CEO, naturalmente! Ossia colui o colei che ha ricevuto il mandato dal CdA per rendere effettiva la strategia nel corso dei 3/5 anni che ci si è dati per realizzarla. Ok, ma chi controlla che il CEO non si faccia entusiasmare troppo dalla progettualità e dalla prospettiva di medio termine, a scapito dei profitti da realizzare progressivamente? Il CFO, naturalmente! Sì, ma il CFO riporta al CEO e, quindi, può esprimere solo un parere fondamentale, ma non vincolante. L'alternativa è quella che il CFO riporti direttamente al CdA, ma in questo caso il CEO sarebbe una sorta di Medardo (Il Visconte Dimezzato).
Devo dire che negli anni ho visto molti CFO non prendere le giuste decisioni perchè completamente assoggettati al CEO. In qualche caso addirittura assecondando decisioni al limite della legalità. Ho anche visto, però, CFO riportare direttamente al CdA (o al loro capo europeo nel caso di multinazionali) ridotti a un mero organismo di controllo, che, a quel punto, sarebbe stato opportuno scollegare dagli obiettivi commerciali dell'azienda. Non è un affare semplice, soprattutto se si insiste nel vedere le due figure in contrapposizione di interessi che non possono, invece, che essere complementari. Personalmente, credo nella più ampia delega ai manager, quindi anche al CFO. Ma, mentre un direttore commerciale o un direttore marketing hanno un'indipendenza operativa che permette loro di prendere decisioni in tempo reale per il bene del business, il CFO ha una autonomia molto ridotta, in quanto "maneggia" numeri che "altri" producono. In altre parole, è messo di fronte all'evidenza dei fatti e agisce sempre di "rimessa". E' pur vero che le aziende più organizzate hanno procedure che permettono al CFO (spesso solo a valle)  di intervenire per inibire iniziative che penalizzino eccessivamente il conto economico (sconti, ecc.) o il patrimonio (dilazioni di pagamento, ecc.), ma è anche vero che questo ruolo spesso ingenera conflitti in azienda difficilmente sanabili. Bisogna ricordare che la motivazione di un commerciale (anche in termini di bonus e incentivi) è, di norma, diametralmente opposta a quella del CFO. E' vero che tutti sono misurati sui profitti, ma con percentuali diverse. Ma il CEO in tutto questo cosa può fare? Cominciamo col dire che i giorni in cui il CFO era solo un macinatore di numeri sono lontani e finiti. E di questo il CEO ne deve tener conto. Tutte le attività commerciali devono essere valutate da subito insieme al CFO. Così come tutte le valutazioni in merito a profitti e patrimonio devono essere valutate da subito con il commerciale. Ecco il vero ruolo del CEO: incoraggiare e guidare la relazione dialettica tra se stesso e il CFO e tra le altre funzioni/divisioni aziendali e il CFO. Il CFO deve mantenere la sua autonomia di giudizio, ma deve conoscere la direzione strategica e di crescita dell'azienda. Per fare questo deve crescere e capire le dinamiche di sviluppo del business, per non limitarsi a conoscerle "solo" attraverso i numeri.
E questa attività è in mano al CEO, il quale deve arricchire la professionalità del CFO con la conoscenza della concorrenza, dei clienti, del contesto economico, ecc. Ovviamente, la stessa missione educatrice deve essere rivolta al commerciale e al marketing perché maneggino con padronanza tutte le tecniche di misurazione del payback della loro attività. Dialettica, dunque, tra chi gestisce la crescita e chi il profitto, pur partendo da posizioni antitetiche, ma con l'obiettivo comune e dichiarato di trovare la giusta sintesi di compromesso che sia difendibile sia sul fronte della crescita della quota di mercato, sia sul fronte della crescita o salvaguardia dei profitti. Resta inteso che il CFO è, a mio avviso, il braccio destro del CEO. Senza la bussola dei numeri ci si muove a caso, con quel che ne consegue. Ma è pur vero che se non si è chiari su chi governa la nave, magari creando "ruoletti" di controllo non ufficiale, si fa saltare in aria la "baracca". Come dice Mike Conform, CEO e CFO devono essere un duo dinamico e non "la strana coppia" e chiude dicendo: "There's often a difference between what you want to hear versus what you need to hear" (Spesso c'è differenza tra ciò che vuoi sentirti dire e ciò che hai bisogno che ti si dica).

sabato 3 dicembre 2016

Qual è il Miglior Background per un CEO, Numeri o Vendite?

Innanzitutto, CEO si nasce o si diventa? Beh, credo si sia tutti d'accordo sul fatto che si diventi. Ovviamente, non considero il caso di rampolli fortunati che si trovano a governare aziende di famiglia con nessuna o pochissima esperienza alle spalle. Qui si parla di manager che hanno fatto un percorso lavorativo autenticamente formativo, insomma persone che hanno una carriera alle spalle. Quindi siamo d'accordo, CEO si diventa. E le caratteristiche personali? Quel certo talento "innato" che solo alcune persone hanno, quanto conta? Molto, anzi moltissimo. Resta il fatto, però, che per dirigere un'azienda è necessario maneggiare una "strumentazione" complessa e sofisticata che richiede studio ed esperienza e che non può essere compensata da un ispirato senso degli affari. E così siamo arrivati al punto: quali competenze sono necessarie? Di che esperienza stiamo parlando?  Che storia aziendale bisogna avere alle spalle? CEO lo può diventare chiunque lo meriti, tuttavia, statisticamente, le figure maggiormente destinate a ricoprire questo ruolo provengono dalla direzione commerciale e marketing o dalla direzione amministrativa e finanziaria. Jeffrey S. Sanders, Vice Presidente e Managing Partner di Heidrick & Struggles Nord America, nel 2011 ha condotto un'indagine sui CEO delle 500 società Fortune, dalla quale risulta che il 30% dei CEO ha alle spalle una carriera iniziata in ambito amministrativo e il 20% proviene dalle vendite e dal marketing. Quindi le conoscenze finanziarie sono fondamentali.
Tuttavia, solo il 5% è diventato CEO direttamente dal ruolo di CFO.  Più della metà dei CEO è stato promosso dal ruolo di COO (Chief Operating Officer) o da quello di President (il President non ha nulla a che vedere con l'equivalente tradotto in italiano, si tratta di un dirigente a capo di una divisione o business e riporta al CEO). Insomma, le grandi società premiano il background finance, ma solo se si è evoluto in chiave operativa. Certo che conciliare sviluppo e profitto non è la cosa più semplice. Potremmo dire, a grandi linee, che l'azionariato di un'azienda che tenda a conservare e preservare la situazione esistente preferirà affidarsi ad un CEO con una solida base amministrativa e l'azionariato di un'azienda che intende crescere e svilupparsi si affiderà ad un CEO con una più marcata preparazione commerciale. Molto si decide in base a cosa si è riusciti a costruire nell'azienda che deve scegliere il proprio CEO. Lo stesso studio già citato, ci dice che i tre quarti dei CEO sono scelti dall'interno delle aziende, quindi si tende a premiare la loro storia di successi raggiunti in seno all'organizzazione.  E il successo più facilmente identificabile è quello in ambito operativo, portato a compimento dal Chief Operating Officer (COO), dal Chief Commercial Officer (CCO) o dal Business Unit Director o President, che, magari, sono prima "cresciuti" in ambito amministrativo. Ricapitolando, il CEO "perfetto" ha iniziato la sua carriera in ambito amministrativo, ma NON è diventato CFO. E' stato successivamente promosso in una posizione operativa e lì ha dimostrato tutto il suo valore, per poi fare il grande salto. Giusto? Non proprio. Anne M. Mulcahy è stata la CEO di Xerox tra il 2001 e il 2009 portando l'azienda ad un grandioso recupero e ad un altrettanto straordinario rilancio. Nel 2008 è stata nominata CEO dell'anno dal Chief Executive Magazine. Sapete che lavoro aveva svolto sino a 20 anni prima? L'agente di commercio! Quindi vendite, altro che numeri.
La realtà è che la complessità della natura umana si riflette anche sulle nostre attività e sui ruoli che ci siamo inventati per governare le nostre cose. E tra questi ruoli, quello di CEO è certamente uno dei più complessi. Proviamo a disegnarlo insieme, partendo da come è fatto il nostro cervello.  La nostra parte sinistra è quella deputata al pensiero logico, razionale e analitico, insomma è la nostra parte CFO. E' una componente fondamentale, ci aiuta a stabilire se un'operazione è profittevole, se genera flussi di cassa e in che misura, circoscrive i problemi e cerca le soluzioni ad hoc per essi. Attraverso il nostro lato sinistro (CFO) siamo in grado di scomporre in passaggi i nostri business plan, quantificando il valore delle risorse necessarie per realizzarli e prevedendo i ritorni che è ragionevole attendersi. Ovviamente, questo è il lato che tende a non prendere rischi e ad attenersi ai dati esistenti, spingendo al minimo le proiezioni relative alla dimensione del "possibile". Ma noi stiamo progettando un CEO e, quindi, abbiamo bisogno anche di rischio e di "visione". Eccoci arrivati al lato destro del nostro cervello, quello dove risiedono immaginazione, creatività e intuito. Da qui si sviluppa l'intelligenza emotiva, la leadership di servizio, il problem solving, la comunicazione e la prospettiva di medio lungo termine. Un CEO che non sia dotato di creatività, senso del rischio e decision making è letteralmente un CEO a metà. Così come un CEO che difetti della sua parte sinistra, rappresenterebbe quasi certamente un disastro per gli stakeholders interni ed esterni. In azienda non esiste un ruolo nel quale ci si prepara per diventare CEO. Da qualunque area si parta, ci sarà sempre qualcosa da imparare. Quindi, numeri e vendite sono due componenti fondamentali del ruolo e non possono essere scisse. Un CEO ha certamente (?) educato sia la parte sinistra che la parte destra del suo cervello, perché è consapevole che il suo successo sarà anche il successo delle persone che lavorano ed interagiscono con l'azienda che dirige.

sabato 26 novembre 2016

Pinocchio top manager e il CLO (Chief Liar Officer)


Mentire è male! Sempre! ......O no? Attenersi strettamente e rigidamente all'effettiva realtà delle cose può rappresentare un limite, che possiamo superare attingendo all'infinita varietà dei mondi possibili, offertici dalla menzogna. Ovviamente, in questa sede non siamo interessati alle bugie ad uso personale o alle cosiddette bugie bianche. Qui si parla della menzogna come dote a corredo dell'armamentario del C-Level Manager. Diciamo subito che noi ci schieriamo dalla parte di chi non mente, ma la "gestione complessa" non è un'attività che può fare a meno di tutti gli strumenti di controllo. Non si può non citare la famosa frase tratta dal Principe di Machiavelli: "Governare è far credere". Un CEO non può sedersi ad un tavolo senza (pre) supporre che il suo interlocutore possa anche mentire, così come egli stesso dovrà tenere pronta la sua dotazione di bugie ad hoc da propinare alla controparte. Ma andiamo con ordine ed elenchiamo i punti chiave per un CLO.
  1. Mentire sempre per una ragione. Charles Ford nel suo Lies! Lies! Lies! dichiara: "Prisons are filled with bad liars", le prigioni sono piene di cattivi mentitori. Il cattivo mentitore è colui che mente sempre, anche quando non ne trae nessun vantaggio. La bugia, per avere un'efficacia effettiva, deve essere rigidamente circoscritta a quanto serve e non di più. E' chiaramente inutile mentire "alla grande", sempre meglio mentire poco, ma utilmente. Per capirci, se dichiariamo di poter o saper fare qualche cosa, che non sappiamo fare, siamo stupidi, oltre che bugiardi. La bugia deve portare un vantaggio, non un problema. 
  2. Preparare le basi della bugia.  Mentire improvvisando è folle, è da banali bugiardi, non da CLO. Le bugie vanno studiate e preparate. Anzi, vanno esercitate. Più si mente su uno stesso argomento e meglio si imparerà a mentire. Anche in questo caso l'esercizio porta alla perfezione. La nota psicologa Cynthia Cohen ha dimostrato che è più facile smascherare un bugiardo che mente per la prima volta, piuttosto che uno "esercitato" a mentire su un dato argomento.
  3. Conoscere bene la persona a cui si vuol mentire. I "grandi" mentitori sono persone dotate di talento, tanto quanto i grandi comunicatori. Entrano in empatia con il "target" e confezionano la bugia in modo adeguato a chi deve ascoltarla. Carolyn Saarny spiega che bisogna mentire mettendosi nella prospettiva di chi ascolta, conoscerne i gusti e gli interessi.
  4. Essere focalizzati. Chi mente non può distrarsi. John Yarbrough è un esperto in interrogatori della sezione omicidi di Los Angeles e spiega che quando vuole smascherare un bugiardo, lo accusa di essere tale e, se sta mentendo, il soggetto mostra subito incertezza nel difendere quanto ha dichiarato. Per mentire bisogna essere concentrati. Attenzione però, non bisogna credere alle proprie bugie, questo sarebbe psicologicamente deleterio e "tecnicamente" sbagliato. Bisogna accettare la sfida e restare vigili sulla gestione della bugia.
  5. Attenti ai segnali del vostro corpo. Chi mente (di norma) ha uno sguardo sfuggente, tende ad esprimersi con discorsi interrotti o poco filanti, si tocca il naso e palesa una certa irrequietudine. Quindi, massimo controllo del corpo e della postura.
  6. Alzare il livello della tensione ad arte. Se vi sembra che il vostro interlocutore stia maturando qualche sospetto su quanto dite (come dicono i miei figli, vi stia sgamando), dovete alzare la tensione. Dovete spostare il discorso su temi che mettano pressione sul vostro interlocutore e spostino la sua attenzione sul tema oggetto della tensione, accantonando l'idea di indagare più a fondo sulle vostre bugie. Un esempio classico è quello di "forzare la mano" sfidando polemicamente l'interlocutore su un tema oggetto della discussione, sul quale sapete di non aver mentito.
L'arte (?) della menzogna è complessa e accompagna l'uomo da millenni. Anzi, è una parte essenziale della nostra dimensione speculativa. Credete che stia esagerando? Tutt'altro. Marco Messner nel suo Metafisica della Menzogna ci spiega che l'indagine dialettica attorno alla realtà ultima delle cose, passa attraverso il presupposto implicito che il pensiero possa, attraverso i suoi "perché?", arrivare ad una conoscenza ultima e definitiva, cosa che è falsa. Per Messner, la filosofia è continua creazione del falso. Le grandi domande su Dio, Anima e Mondo partono dall'assunto che l'indagine porti, attraverso successivi approfondimenti, ad una realtà superiore, della quale è impossibile la dimostrazione. Insomma, il pensiero è una macchina che produce bugie. Chiudo proponendo una lettura di quest'articolo finalizzata ad un utilizzo difensivo dalla menzogna. Non mentite, fin dove potete. Mentire è faticoso, stressante e comporta un affaticamento mentale dato dalla dissonanza cognitiva, ossia dal conflitto interiore che ci generano idee contrastanti e contradditorie. Per tutti i C-level manager il consiglio è di prepararsi a mentire solo per riconoscere chi mente. Pinocchio non dovrà mai essere il CEO di nessuna azienda. 

mercoledì 2 novembre 2016

Il successo nelle trattative? Postura, Calma e Realismo

La negoziazione è un'arte che richiede più tecnica che creatività e ispirazione. Conosco tantissimi top manager che non si preparano mai prima di un meeting, perché ritengono che questo li influenzerebbe negativamente. Preferiscono arrivare alla riunione "carichi" della loro sicurezza e affrontare gli argomenti e gli umori che emergono in tempo reale. Come naturale conseguenza, hanno un approccio egocentrico e tendono a parlare più dell'interlocutore. Ritengono che guidare la riunione porti, necessariamente, ad un più sicuro successo. Ovviamente, questa teoria è del tutto fantasiosa e nasconde solo una concreta incapacità ad affrontare in modo razionale il confronto con altre persone. Nel corso di una riunione d'affari, chi ci osserva ci giudica dalla modalità con la quale ci presentiamo e ci comportiamo.  In una negoziazione, si comincia a "mappare" il tavolo appena ci si presenta e ci si siede. Gli sguardi si incrociano con affettata cortesia e si comincia ad inquadrare la "geopolitica" di chi "conta" e chi no. E' una mappatura superficiale, ma condiziona l'apertura dei lavori. Vediamo di capire quali sono i punti chiave del giudizio esteriore. Il primo è la postura. Melia Robinson ha definito la postura il trucco meno tecnologico e meno caro per rendersi la vita facile ("the least expensive, most low-tech life hack you'll find"). La nota psicologa Amy Cuddy, parlando della postura, l'ha definita un segnale di potere e, anche nei casi in cui non ci si senta a proprio agio, ostentare una postura di sicurezza stimola i livelli di testosterone e cortisolo nel cervello, a tutto vantaggio del successo nella trattativa. Movimenti incontrollati, scatti improvvisi, mutamenti frequenti della posizione trasmettono disagio e debolezza, quindi vulnerabilità. La postura deve trasmettere la nostra totale sicurezza ed il pieno controllo della situazione.
La nostra posizione deve rimanere la stessa per un tempo sufficiente a dare la netta sensazione che la nostra concentrazione è sugli argomenti e che le nostre energie non si stanno disperdendo. Ovviamente, non dobbiamo assumere comportamenti ridicoli e innaturali, ma "accompagnare" il nostro intervento e quello degli altri con movimenti misurati e controllati. Il secondo punto è mantenere sempre la calma. La riunione può avere andamenti sgraditi per diversi motivi, per esempio la controparte potrebbe mettere in discussione quanto da noi affermato, potrebbe decidere di imporre la propria posizione in modo sgarbato oppure il nostro partner potrebbe dire qualcosa di troppo, ecc.. La nostra reazione deve sempre essere pacata. Qualsiasi cosa accada, ci riguarda ma non ci tocca. L'interlocutore deve avere la netta sensazione che la chiusura dell'affare per noi è importante, ma non vitale. Per approfondire il punto consiglio la lettura del libro di Jill Geisler "Work Happy - What Great Bosses Know". Se non siete calmi di natura, potete imparare ad esserlo. Non ci credete? Provate ad immaginare la calma come un abito da lavoro che indossate ogni volta che "entrate" in ruolo e tutto vi sembrerà più naturale. Terzo punto, essere realistici. Quando si conduce una trattativa si devono avere ben chiari in mente i propri obiettivi e quelli della controparte. Come dicevo all'inizio, presentarsi in una riunione con il piglio di chi vuole stravincere è da perdenti. Comunicare l'idea che vogliamo tutto o niente ci rende ridicoli. Sì, perché, se fosse vero, non ci sarebbe bisogno della riunione. Basterebbe una telefonata per definire la questione a nostro vantaggio. La nostra controparte lo sa e ci studia per capire se siamo in grado di misurare il livello di ottenibilità delle nostre pretese. Se le nostre richieste sono palesemente irrealistiche, la nostra credibilità scende sotto zero e rischiamo di non ottenere neppure ciò che il nostro interlocutore era disposto a riconoscerci. Quando "failure is not an option", ossia quando non si può fallire, essere realistici è l'unica possibilità che abbiamo per portare a casa il nostro risultato. Essere ragionevoli (o almeno fingere molto bene d'esserlo) preoccupa l'avversario che non può più rifugiarsi nello "stallo". Ovviamente, quanto detto sin ora, in assenza di contenuti, non ha nessun senso. Curare l'apparenza nel corso di una negoziazione è solo l'espediente per influenzare il giudizio superficiale della controparte. Esiste poi tutto il capitolo su come si prepara una negoziazione sui temi specifici ed il loro relativo utilizzo, ma questa è un'altra storia.

mercoledì 28 settembre 2016

Top Manager, Relazioni Sociali e Crescita Aziendale

Confesso che mi hanno sempre incuriosito quei "business men" capaci di mille relazioni. Quelli che salutano un po' tutti al golf club o al tennis club, che lanciano frasi del tipo "ehilà, ci vediamo..." oppure "ciao carissimo come stai?...", tutto questo senza fermarsi e continuando a camminare sorridendo. Insomma, i professionisti della relazione a misura di superficialità, quelli che, sparando a caso nel gruppo, riescono a intrattenere rapporti con una quantità smisurata di persone che conoscono appena. Un mondo in via d'estinzione, non perché i soggetti siano spariti (anzi..), ma perché l'efficacia di un simile sistema è ormai agonizzante. Oggi, nel mondo degli affari, la credibilità non passa più dall'abbronzatura. E' necessario avere solide basi professionali. Tutti noi siamo diventati più esigenti e "spietati". Giudichiamo e misuriamo i nostri interlocutori con molta attenzione e scrupolo. Imprenditori, manager e professionisti stanno imparando a proprie spese che "l'amico del club", quando deve fare una scelta che incide sulle sue economie, pretende garanzie di professionalità e preparazione e che "la complicità" non va oltre lo spogliatoio dello stesso club. Oggi il Networking è un'attività che richiede metodo e che si sviluppa in tutte le possibili situazioni di incontro e/o confronto sociale. Networking significa costruire relazioni solide e mantenerle nel tempo. Si tratta di una combinazione di arte e scienza. La parte "artistica" attiene alla capacità di intrattenere relazioni empatiche e profonde. Riguarda la nostra possibilità di entrare in contatto con "l'altro" ed è artistica nella misura in cui siamo capaci di creatività relazionale. La parte scientifica riguarda le nostre conoscenze culturali e professionali e l'approccio metodico alla relazione con gli altri. Dobbiamo sviluppare un'attitudine controllata e razionale nei rapporti sociali, non trascurando mai i dettagli che ci avvicinano al resto del mondo, Direi che c'è anche una componente di ricerca e di sperimentazione pratica. E' bene ricordare che mi sto riferendo a relazioni finalizzate alla crescita dei propri affari, quindi è abbastanza naturale una certa mancanza di spontaneità. Questo non è certo un modello da applicare con i propri familiari. Il Networking si sviluppa lungo tre direttrici principali:
  1. Networking Formale 
    Si tratta delle relazioni che si instaurano in occasione di convegni, meeting, seminari ecc. Contrariamente a quel che si possa pensare, è la situazione più complessa. Infatti, non è semplice distribuire i propri biglietti da visita in contesti nei quali ci si è presentati perché interessati al tema in oggetto (cosa solo raramente vera).
  2. Networking Informale
    Sono le normali relazioni quotidiane, le situazioni nelle quali abbiamo modo di conoscere persone nuove o di approfondire la conoscenza di persone che frequentiamo di vista.
  3. Social Media Networking
    Ovviamente, si parla di Facebook, Linkedin, Twitter, etc. Questa è un'area tutt'altro che banale ed esistono esperti che hanno raggiunto competenze superspecialistiche.

Questi sono i tre momenti fondamentali per distribuire al mondo il miglior volantino che possiate concepire: voi stessi. Certo esiste un problema, la gente non ha troppo tempo per stare ad ascoltare voi e la presentazione della vostra attività. Se state parlando di calcio o del tempo, diventa difficile "buttare" lì l'informazione che vendete scaldabagni (o qualsiasi altra cosa). Quindi, l'unica possibilità che avete è quella di far parlare gli altri. Sì, è esattamente così. Se volete trovare il tempo per far scivolare informazioni sulla vostra attività, dovete portare l'interlocutore ad esporsi parlando di sé. Nel caso di un'occasione di Networking formale, nella pausa caffè, aggregatevi ad uno dei crocchi che si creano in "zona coffee" o buffet (non si sbaglia mai) e, sorridendo, ascoltate di cosa parlano e che argomenti hanno attirato la loro attenzione.  
Quando decidete d'intervenire, vi scusate per l'intromissione e, sorridendo al mondo, vi presentate e dite la vostra sommessamente. Nel caso di Networking informale, fate domande, sempre. Se il vostro vicino di box lo salutate a stento la mattina, quando il buon umore l'avete lasciato sul comodino al risveglio, trovate il modo di salutarlo in modo più amichevole. Fategli notare che vi incontrate ogni giorno e sapete così poco l'uno dell'altro. La mattina dopo, probabilmente, potreste trovarvi a parlare di cosa fate nella vita e, in capo ad un paio di settimane potreste prendere il caffè insieme. Può darsi che non diventi vostro cliente, ma certamente vi sentirete meglio come persone. Sui social gli esempi si sprecano. L'unico consiglio che desidero dare è: ricordatevi sempre che quel che si scrive resta! Non fate i romantici su Facebook con foto di tramonti e poi cliccate "mi piace" all'annientamento fisico di una qualsiasi categoria di persone. Cercate sempre di essere professionali, questo, naturalmente, se decidete che la vostra comunicazione debba essere dedicata al Networking. Vorrei tornare alla dimensione "tempo", ossia alla necessità di concepire una presentazione della vostra attività che possa essere enunciata in pochi secondi. Gli americani la definiscono "elevator pitch", ossia una presentazione che potreste fare nel lasso di tempo che impiega un ascensore a raggiungere il piano selezionato. Il consiglio è di dedicare risorse alla cosa, anche perché sarà lo spot che potrete usare in qualsiasi situazione. Questi gli elementi su cui lavorare:
  1. Semplicità, chiarezza e sintesi
  2. Cosa vi rende unici rispetto alla concorrenza
  3. Immaginatevi nei panni di chi ascolta
  4. Più di una soluzione "di stile comunicativo" in base alle situazioni e ai luoghi
  5. Identificazione di tutte le possibili obiezioni e preparazione delle relative risposte
Una volta preparato il vostro "elevator pitch", col tempo imparerete a utilizzarlo sempre meglio e con crescente disinvoltura. Vorrei chiudere con alcune precisazioni fondamentali:
  • Se non date seguito alle relazioni che avete instaurato, avete solo perso tempo. I rapporti vanno coltivati e fatti crescere. La vostra credibilità personale condiziona il giudizio sulla vostra credibilità come manager e imprenditori, 
  • Chiedetevi sempre cosa potete fare per gli altri. Rendersi utili e mettere al servizio delle persone le proprie competenze è il miglior modo per farsi apprezzare e conoscere. Non siate meschini nel voler sempre "monetizzare" il vostro apporto. Un'intelligente generosità produce moltissimo e ci rende migliori.
  • Siate voi stessi. Siate unici. Non cercate il consenso uniformandovi alla massa, piuttosto
    marcate le vostre differenze. Le vostre caratteristiche sono le vostre e su quelle dovete lavorare. Vi si ricorderà per quel che vi rende unici. Staccatevi dal gregge e camminate da soli. Se proprio non ci riuscite, perché amate agire in gruppo, almeno siate la pecora nera.
  • Siate di parola. Se promettete qualcosa, fatela. Noi tutti ci ricordiamo di chi ha tradito le nostre aspettative. Cercate di non finire nella cartella "spam" delle relazioni sociali.

lunedì 19 settembre 2016

Basta con il mito del manager eroe!

I tempi del leader eroico sono finiti. Caricarsi sulle spalle le aziende, i loro problemi e le persone che le compongono è un'operazione inverosimile e, pertanto, disperata e dannosa. E' un'attitudine che in passato ha appagato l'ego di molti manager e imprenditori, spesso a spese delle aziende che dirigevano. Nel 2010 R. Scott Rodin ha pubblicato un libro ("The Steward Leader: Transforming People, Organizations and Communities"), nel quale, pur mescolando teologia e business, ha ridisegnato  i nuovi paradigmi della leadership aziendale. La leadership è diventata servizio, ovvero focalizzazione sugli altri per la loro valorizzazione. Il leader non può e non deve limitarsi a rispondere per sé, ma deve essere misurato per i risultati che l'organizzazione che guida è in grado di portare. Viversi e farsi vivere come indispensabili indebolisce le capacità di chi ci circonda e, quindi, indebolisce la struttura che vogliamo portare al successo. Frasi del tipo "ok, ho capito, ci devo pensare io!" oppure "ci penso e poi vi faccio sapere" azzerano in un secondo qualsiasi possibilità per i componenti del team di "scavare" tra i loro pensieri per concepire soluzioni alternative. Quindi, la parola magica è servizio e il primo passo è la (ri)distribuzione del potere a tutti i livelli. Molti executives e imprenditori avvertono un senso d'impoverimento e di perdita di prestigio, anzi, hanno la netta sensazione di "essere tagliati fuori" dalle dinamiche aziendali e diventano più insicuri e instabili. Eppure, è vero proprio il contrario. Incontrando i propri collaboratori e ascoltando i loro problemi, si diventa le loro insostituibili guide. Offrire la propria collaborazione significa essere al loro fianco proprio quando devono realizzare i loro risultati. Ecco l'idea di servizio (Steward Leadership), guidare gli altri ed essere decisivi per il loro successo. Certo, questo modello di leadership richiede alcune qualità e di seguito le vediamo.
  1. Padronanza di se stessi. La leadership di servizio richiede grande sicurezza nei propri mezzi professionali e personali. Se si è insicuri delle proprie competenze o malcerti sulle proprie attitudini è bene cominciare a lavorare prima su se stessi.
  2. Una forte vision personale. Chiarezza sulla visione complessiva degli obiettivi di medio lungo termine personali e aziendali. 
  3. Mentoring. Bisogna abituarsi a dedicare grande attenzione alle necessità degli altri e lavorare per la loro crescita personale e professionale.
  4. Dare valore alla diversità. Il concetto di diversità è molto generico, in questa sede mi riferisco alla diversità antropologica e culturale. Aprirsi alla diversità consente un arricchimento delle prospettive e, conseguentemente, un assortimento di soluzioni possibili molto più ampio.
  5. Coraggio. La leadership di servizio richiede coraggio e propensione al rischio. Ampliare le proprie capacità ricettive può significare esplorare soluzioni meno collaudate e confortevoli.
  6. Portare risultati. E' bene non dimenticare che, comunque, stiamo parlando di leadership aziendale. Quindi, il leader di servizio guida e sostiene i propri collaboratori nella direzione dei risultati attesi. L'aspetto del servizio si inserisce nel valorizzare al massimo i singoli apporti, limitandosi ad auto attribuirsi il merito di aver sostenuto e aiutato gli attori del successo. Al contrario, in caso d'insuccesso, un leader di servizio tende a includersi e ad includere tutti nella rivisitazione delle modalità strategiche ed operative dell'azienda. 
Per riprendere il tema iniziale, c'è molto più eroismo nel modificare la propria prospettiva complessiva, che nel continuare a ripetere "se non ci fossi io....". Quindi, chiuderei con: "caro Superman bye bye!"

sabato 10 settembre 2016

Alla radice dell'idea di Business Process

Che cosa differenzia una serie di azioni da un processo? La necessaria, anche se non costante, ripetitività. In azienda, quando una serie di azioni sono indispensabili per il nostro business, e si ripetono nel tempo, diventano processi. Spesso potete distinguere l'esistenza di un processo (fuori controllo) dagli esiti negativi che produce. Per esempio: non riuscite mai a completare un ordine in tempo, i costi salgono "inspiegabilmente", i vostri collaboratori sono molto stressati, ecc.. Dunque, l'azienda è attraversata da una serie di comportamenti che richiedono una razionalizzazione, ma ci sono anche comportamenti che, pur se ripetitivi, non sono definiti processi, quindi? Come facciamo a capire quali serie di azioni devono essere definite processi? E poi, come le differenziamo dalle altre serie di azioni? Per risolvere il primo quesito dobbiamo mappare la nostra attività e per mapparla dobbiamo scomporla in sezioni razionali che definiscano le macro attività decisionali e operative che caratterizzano il nostro business. Poi, con successive analisi, le macro attività devono essere scomposte nelle loro componenti minori, sino ad arrivare ad una mappatura "molecolare" della nostra attività. Una volta mappata la nostra attività, quelle serie di azioni che riteniamo fondamentali per l'esistenza e il successo del nostro business sono processi e, per distinguerli dalle altre attività, li formalizzeremo differenziandoli dagli altri processi (rispondendo al secondo quesito). La formalizzazione di un processo è la definizione scritta del suo obiettivo, dei passaggi che lo definiscono, dei ruoli o delle competenze coinvolte e dei livelli d'interazione con altri processi. Tutte le altre azioni che si svolgono in azienda, se non sono identificate come essenziali alla vita della stessa, non sono processi e, quindi, non necessitano di formalizzazione. La distinzione non è sempre semplice e, spesso, la messa a punto di una corretta mappatura dei processi aziendali è un'attività (anzi un processo) che accompagna per sempre l'azienda. Affidarsi all'abitudine consolidata a certi comportamenti e pensare che gli automatismi funzioneranno sempre e saranno sempre sotto controllo è un'ingenuità che può risultare fatale. Il miglioramento dei processi (Business Process Improvement) evita problemi quali:
  • Mal contento dei clienti per la scarsa qualità dei prodotti e/o dei servizi
  • Collaboratori frustrati e stanchi
  • Lavori ripetuti o addirittura saltati
  • Incremento dei costi
  • Dispersione delle risorse produttive
  • Colli di bottiglia operativi e conseguenti ritardi produttivi e di consegna.
Ora che ci siamo convinti, che dobbiamo fare? Come si diceva all'inizio, per prima cosa dobbiamo mappare i processi e per farlo dobbiamo scegliere un metodo. Il più semplice è quello di ricorrere ad una flowchart, ossia una serie di forme geometriche collegate da frecce con all'interno descritto lo specifico passaggio del processo. Caratteristiche della descrizione di un processo sono:
  1. La sua chiarezza inequivocabile
  2. La standardizzazione
  3. La comunicabilità
  4. La misurabilità della sua efficienza (rapporto output-risorse) e efficacia (qualità-quantità dell'output).
In chiusura vorrei citare le policies e le procedure. Le prime stanno a monte di tutto e ispirano l'intero sistema aziendale, rappresentando i riferimenti generali di comportamento. Le seconde sono l'atomizzazione ulteriore dei processi e possono essere ulteriormente declinate in istruzioni. Quel che però conta è che una corretta analisi dei processi è la chiave per una conoscenza dettagliata e consapevole della propria attività e, quindi, l'unico strumento valido di rettifica e miglioramento delle proprie performance.

mercoledì 29 giugno 2016

Pricing Analysis, ovvero ogni cosa ha il suo prezzo

Cos'è esattamente la Pricing Analysis? E' l'insieme delle valutazioni che un imprenditore o il suo management devono fare per stabilire il valore del bene o servizio che vendono o intendono vendere. Sì, va bene, ma come si stabilisce il "valore" di un bene? Il concetto di valore è relativo, ossia dipende da quanto il mercato è disposto a pagare in un dato tempo e luogo per un determinato bene o servizio. In realtà, il valore non è mai un concetto assoluto e, quindi, nemmeno i prezzi lo sono. E allora che considerazioni si possono/devono fare? La prima parte dell'analisi deve essere condotta sul rapporto esistente tra la domanda e l'offerta presenti nel mercato. Vi evito (e mi evito) le varie funzioni matematiche che regolano la materia e provo a rendere il tutto più semplice. In linea di massima, al crescere del prezzo diminuisce la domanda, mentre al diminuire del prezzo la domanda aumenta. Ovviamente, tutto ciò è vero sino ad un certo punto, e quel punto si calcola con l'elasticità del prezzo, ossia si definisce qual'è il prezzo al di sotto o al di sopra del quale la domanda non si modifica più. 
Nel grafico a destra, la curva arancione della domanda chiarisce perfettamente il concetto. In presenza di un prezzo minimo, la domanda tende a salire sino a 500, all'aumentare del prezzo, la domanda scende sino ad arrivare a zero. L'offerta, rappresentata dalla linea blu, si ipotizza in crescita in funzione del prezzo. Cosa ne deduciamo dal grafico? Che al prezzo di €600 circa, la domanda e l'offerta sono in equilibrio. Quindi, dopo l'analisi del rapporto tra domanda e offerta abbiamo trovato il nostro prezzo! Purtroppo, non è così semplice. Anzi, siamo solo all'inizio del processo. Per esempio, non abbiamo ancora considerato il calcolo dei costi di produzione e il successivo margine di profitto da aggiungere. Manca anche la definizione del prezzo che i clienti sono disponibili a pagare per il prodotto o servizio, prezzo che, normalmente, si ricava con indagini di mercato ad hoc. Non solo, non abbiamo ancora considerato i prezzi della concorrenza.
​​Ma andiamo con ordine e cominciamo dai costi. Una delle cose più complesse è la determinazione del costo di un prodotto. Per esempio, nel caso di materie prime, il loro valore si modifica nel tempo ed è fortemente influenzato dalle scale di produzione. Non è tutto, ogni prodotto "si porta dietro" una serie di altri costi che possono solo essere stimati e allocati secondo logiche di attribuzione percentuale. Passiamo alle indagini di mercato. I clienti potenziali, quando sono interrogati sulla disponibilità alla spesa per un dato prodotto, danno risposte che, nella pratica, sono molto lontane dai comportamenti che effettivamente mettono in atto nel momento dell'acquisto. Questo elemento può essere fortemente fuorviante in fase di Pricing Analysis.  E la concorrenza? Le logiche di pricing messe in atto dai competitor possono essere dettate da una serie di considerazioni e dati che potrebbero non essere nelle nostre disponibilità conoscitive. Una politica dei prezzi aggressiva da parte di un concorrente potrebbe essere il frutto di una scelta strategica di abbandono di un certo mercato. Oppure, al contrario, un politica di prezzi molto alti potrebbe essere il frutto di un tentativo di segmentazione del mercato che, nel vostro caso, potrebbe essere inadeguata e prematura. Insomma, sino a questo punto, abbiamo capito che:
  • L'analisi della Curva della Domanda
  • L'analisi dei costi
  • L'analisi del prezzo teorico accettato dal cliente
  • L'analisi dei prezzi praticati dalla concorrenza
rappresentano solo l'inizio della Pricing Analysis. Cosa manca all'appello? L'analisi geo-demografica del mercato di riferimento per la definizione del prezzo (Demographic Based Pricing Strategy). Cioè? "Prezza i tuoi prodotti pensando al tuo target di riferimento"! Per esempio, se intendete aggredire un mercato destinato ai giovani, dovrete avere molta cura nel definire un prezzo accessibile. Al contrario, se pensate di rivolgervi a professionisti affermati, potrete (anzi, dovrete) attribuire un prezzo sufficientemente alto, tale da far percepire il vostro prodotto o servizio come destinato ad un'élite. Quali sono gli elementi che compongono l'analisi geo-demografica del mercato di riferimento? Eccoli:
  1. Il reddito medio
  1. Il genere (consiglio di leggere l'articolo della Wharton University Men buy, woman shop)
  1. Posizione o zona (zone "da ricchi", quartieri popolari, ecc.)
  1. Livello d'istruzione
Attribuite ad ognuno dei fattori dei valori moltiplicativi o de-moltiplicativi e applicateli al prezzo che avete ipotizzato sulla base dei quattro fattori più sopra elencati. La formula è la seguente: Prezzo= Costi di produzione +/- margine derivato dal rapporto ottimale relativo alla curva della domanda +/- margine teoricamente accettato dal cliente +/- differenziale prezzo applicato dalla concorrenza - costi d'acquisizione del cliente (?).  ​​
E adesso da dove vengono fuori i costi di acquisizione del cliente? In effetti, come si diceva più sopra, definire i costi commerciali di un prodotto in fase di pricing non è semplicissimo. Nel definire il prezzo, dopo aver fatto tutte le nostre addizioni e sottrazioni in base all'impatto dei vari fattori, dobbiamo fare un'ulteriore sottrazione data dal CAC (meglio spiegarsi, si tratta dell'acronimo di Cost to Acquire Customers). E' la quota di margine che siamo pronti a sacrificare per acquisire i nuovi clienti. Qual'è la "giusta quota di margine" che possiamo sacrificare? E' quella che riusciamo a recuperare nel ciclo di vita del cliente LTV (Lifetime Value of a Customer). Vi basti sapere che la formula "funziona" se LTV>CAC.  Chiudiamo con un po' di strategia. Il prezzo si "completa" in funzione della strategia che volete attribuirgli e, quindi, dovrà comunque riflettere l'intento strategico che attribuite al prodotto o servizio che proponete. Domandarsi se viene prima la fase tecnica o quella strategica nella determinazione di un prodotto è domanda oziosa. E' chiaro che le due fasi sono assolutamente inscindibili e complementari. La già citata e descritta Demographic Based Pricing Strategy e lo stesso CAC, per esempio, sono chiaramente un processi figli di considerazioni strategiche. Torniamo a noi, si identificano quattro tipi di pricing strategy:

  1. Premium Pricing
  1. Penetration Pricing
  1. Economy Pricing
  1. Price Skimming
1. Premium Pricing
Si tratta di offrire il vostro prodotto o servizio con un prezzo più alto rispetto alla concorrenza. Ovviamente, il prezzo deve giustificarsi in termini di benefici, siano essi oggettivi, siano essi percepiti. La scelta del premium price può essere fatta anche in mancanza di concorrenza, per massimizzare i profitti in fase di primo inserimento sul mercato di un prodotto innovativo. Facciamo un esempio: se avete investito una somma importante per brevettare una soluzione che porta un beneficio inedito e concreto per un prodotto, dovrete "premiare" sia l'investimento, sia il vantaggio competitivo di essere gli unici, per un certo periodo, a poter offrire quel prodotto con quelle caratteristiche. il possibile rischio derivante da questa strategia è che i volumi di vendita restino sempre troppo bassi, a causa del prezzo premiante, non consentendo un'adeguata diffusione del prodotto. Conseguentemente, potrebbe essere più difficile raggiungere le scale economiche produttive previste dal business plan. 
2. Penetration Pricing 
Si tratta di una strategia che è l'esatto opposto della precedente. Infatti, si offre un prodotto o servizio ad un prezzo sensibilmente inferiore a quello della concorrenza, scommettendo su quella clientela che è sensibile alla scelta in base al prezzo. Ovviamente, la scommessa si vince solo se la qualità del prodotto lo farà affermare sulla concorrenza, consentendo un progressivo riallineamento del prezzo e un recupero dei margini grazie ai volumi di vendita. E' una strategia molto efficace, ma anche molto pericolosa. Spesso per un lungo periodo si dovrà vendere al costo o anche al disotto del costo unitario. Quindi, un errore di valutazione può costare molto caro.  ​​
3. Economy Pricing
Si tratta di una strategia apparentemente molto simile alla precedente, ma destinata a prodotti con caratteristiche molto diverse. Stiamo parlando di prodotti che vengono proposti a prezzi molto competitivi che resteranno tali per sempre. Il target è quello di clienti che rinunciano volentieri a una serie di benefici esteriori o di complemento per la pura sostanza. A differenza del penetration price, che offre un prodotto perfettamente analogo a quello della concorrenza, spesso supportato da brand prestigiosi, l'economy price offre un prodotto "meno pregiato". Un esempio può essere rappresentato dai discount alimentari, che  offrono prodotti con brand sconosciuti e minori costi di produzione. 
4. Price Skimming
E' una scelta che ha diversi punti di contatto con il premium pricing, ma si differenzia per il posizionamento del prodotto. Si tratta di attribuire un prezzo molto elevato per, letteralmente, "scremare" il mercato. In questa strategia il prezzo diventa un veicolo di comunicazione e accompagna una serie di iniziative di marketing del prodotto e di brand awareness. Qualcuno sostiene che non sia una strategia sostenibile nel lungo tempo, in quanto la concorrenza si presenterà, prima o poi, con un prodotto analogo con un prezzo più basso, costringendo ad un progressivo abbassamento del prezzo. Ma, in questo caso, stiamo parlando di uno scenario da premium price, più che di price skimmimg. Piuttosto, uno dei temi più delicati è quello relativo alla distribuzione, in quanto i rivenditori avranno bisogno di margini considerevoli per accettare di dedicare spazio espositivo a un prodotto con prezzo alto e, quindi, con un rischio di lento sell-out. Io mi fermo qui, molti aggiungono altri modelli, come lo psychological pricing, Il bundle pricing, ecc., che io non ho lo spazio per affrontare. In ogni caso, li considero più vicini a scelte "tattiche" che non strategiche. In conclusione:
  1. Non attuate mai la politica del "prezzo per tentativi".
  1. Identificate sempre tutti i costi che il prodotto si porta dietro, compresi quelli strategici.
  1. Ricordatevi che il prezzo deve sempre essere coerente con il posizionamento che intendete dare al vostro prodotto o servizio.
  1. Calcolate il prezzo base partendo sempre dall'analisi geo-demografica del mercato di riferimento. ​​
Pensierino finale: Il prezzo è quel che si paga un prodotto o servizio, il valore è quanto ci ripaga l'averlo acquistato. Ancora dubbi? Andate ad acquistare la "Merda d'Artista" di Piero Manzoni, poi tutto vi sarà chiarissimo! 

mercoledì 30 marzo 2016

Anche i CEO imparano facendo!

Le persone colte sono affascinanti. La conoscenza ha un che di magico, quasi come se fosse un dono che misteriosamente viene dato a qualcuno e a qualcun altro no. Pochi si soffermano a pensare che è il frutto di un'attività faticosa, tutt'altro che affascinante. Anzi, in un certo senso, concentrarsi sul processo di apprendimento per alcuni significa impoverire, svilire l'allure che si crea attorno alla conoscenza. Tempo fa, parlando con un collega, evidenziai un trend positivo legato alla nostra professione di personal advisors, riferendogli alcuni dati statistici che dimostravano una tendenza in crescita nella richiesta di professionalità come le nostre. Dopo aver ascoltato dati e statistiche si è girato a guardarmi e mi ha chiesto: "Ma tu come fai a sapere queste cose?" Per un secondo interminabile l'ho guardato negli occhi stupito, poi gli ho risposto: "l'ho letto!" Il suo sguardo pareva rassicurato, aveva avuto la conferma (inevitabile) che anch'io fossi come gli altri: per sapere dovevo apprendere. Per un attimo, forse, aveva pensato che uno spirito magico mi pervadesse e mi desse informazioni inarrivabili per i comuni mortali. Un CEO mi ha raccontato che legge riviste di management per tenersi aggiornato, ma lo fa a casa. Sì perché, se lo vedessero i suoi collaboratori, potrebbero pensare che non è sufficientemente preparato e, quindi, non all'altezza della sua posizione. La conoscenza è affascinante, l'apprendimento no. Tutta la premessa serve ad introdurre il tema dell'apprendimento per un C-level manager. Un CEO, per esempio, apprende continuamente facendo. Non esiste soluzione di continuità tra la fase di apprendimento e quella in cui l'apprendimento diventa conoscenza. Anzi, la conoscenza, che è il presupposto per ogni scelta razionale, è continuamente aggiornata dall'esperienza decisionale. Insomma, apprendimento, conoscenza e utilizzo di quest'ultima sono in gioco costante e continuo. Un CEO non ha il tempo di tenere queste tre fasi distinte ed è sempre e costantemente in fase d'apprendimento. Il mio consiglio per tutti gli executives è di non farsi problemi nel dimostrarsi sempre in fase d'apprendimento, tanto più che è un'attività che dovete svolgere davanti ai vostri collaboratori. La vostra scuola migliore è l'attività quotidiana e non avete alternative. Tutte le messe a punto dovete farle "in corsa". Fare errori in fase d'apprendimento è la cosa più normale e non è negandolo agli altri e a voi stessi che cambierete questa regola. Nella vostra posizione potreste non avere mai tempo per dedicarvi in modo specifico all'apprendimento, quindi sfruttate l'intera giornata per imparare, sempre.




martedì 16 febbraio 2016

La solitudine dei numeri uno (It's lonely at the top!)





La solitudine è qualcosa che, più o meno, tutti temono, ma anche uno stato per ritrovare se stessi. Ci rende fragili e smarriti, ma ci consente, ad un tempo, di confrontarci con la nostra natura più intima. Sarà per questo che la letteratura ha dedicato così ampio spazio al tema, infatti il titolo di quest'articolo riprende quello di un libro scritto da Giampaolo Santoro sul ruolo del portiere in una squadra di calcio e occhieggia al più famoso "la solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano. Tuttavia, voi siete "gente di business" e non mi soffermerò sugli aspetti esistenziali, ma su quelli manageriali e aziendali. Intanto, cito un antico proverbio africano (senza gazzelle e leoni), che dice: "se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai con altri". Perché ci interessa? Perché l'articolo è dedicato a imprenditori, general manager e amministratori delegati, che quotidianamente si confrontano con l'esigenza di prendere decisioni e l'opportunità di condividerle e confrontarsi con i propri collaboratori. La solitudine è lo stato naturale di un leader. Ovviamente, mi riferisco alla "solitudine manageriale", quella che porta un leader a non potere o volere condividere i propri timori e le proprie ansie. Una ricerca della RHR International dimostra che il 63% dei CEO si sente solo e isolato (CEO Snapshot Survey). Il Center for Leadership Development and Research (CLDR) ci dice che i due terzi degli executives in carica non ha ricevuto nessuna formazione o coaching per sviluppare la propria leadership e circa la metà non ne riceverà mai su nessun campo. Ma non è tutto.
Quasi il 100% degli intervistati dichiara che sarebbe felice di ricevere una consulenza da parte di professionisti qualificati. Insomma, stiamo dicendo che per svolgere il lavoro più complesso e delicato in azienda, non s'investe. L'illusione è quella che nel momento stesso in cui una persona sia nominata al vertice di un'azienda, automaticamente abbia tutte le risposte e, soprattutto, sia in grado di decidere in piena autonomia. E' pur vero che in alcune aziende esistono i team management che affiancano la direzione generale nella gestione del business, ma la questione non è garantire un gruppo di dirigenti in grado di condividere i temi di gestione generale. La questione è relativa alla formazione di un individuo che sia capace di esprimere compiutamente il proprio ruolo che, inevitabilmente, copre a 360° le tematiche aziendali. La tempestività richiede la dote della piena e consapevole autonomia decisionale. Il raggiungimento di obiettivi di lungo termine, necessita di leadership e coinvolgimento del management. Per ottenere tutto questo, in un tempo ragionevole, è necessaria una sponda "esterna". La sponda può solo essere rappresentata da un professionista con un storia certa di top management e di leadership coaching. Consiglio di non affidarsi a professionisti improvvisati o prestati, in via transitoria, alla consulenza. Ci vuole "gente" che sappia di organizzazione, produzione, vendita e numeri, con buona pace di psicologi e affini. Il rischio dell'isolamento? L'insicurezza e l'indecisione, due caratteristiche mortali per qualsiasi azienda. Quindi, è possibile andare sia veloci, sia lontani. E' sufficiente essere attrezzati e scegliersi la guida giusta.