giovedì 26 novembre 2015

Se un top manager non trova soluzioni è certamente un problema

"Portatemi soluzioni, non problemi!" Già sentito, vero? Di solito è ciò che un manager chiede ai livelli intermedi o più operativi. Ma come si deve gestire la questione, quando a sentirselo dire è un top manager? Quando, cioè, un C-level manager si sente incalzare con questa domanda? Il tema è delicato, perché a questi livelli entrano in campo deleghe e procure formali e non soltanto compiti assegnati per uno specifico lavoro. Cominciamo col definire una questione di base: esistono gli "identificatori di problemi" e i "solutori di problemi". La differenza è fondamentale, in quanto i primi sono abili nella definizione analitica delle questioni e, quindi, nell'identificazione dei problemi, i secondi hanno la creatività e la praticità per figurarsi le migliori soluzioni possibili. Quindi, siete identificatori o solutori? Prima di approfondire il punto, vale la pena chiarire che un C-level manager deve compendiare le due caratteristiche, ma per sapere in che direzione lavorare per completarsi, deve sapere quale aspetto in lui/lei prevale. Per esempio, quando si presenta un problema, lasciate tutto ciò che state facendo e vi dedicate alla sua analisi o lo identificate sommariamente e cercate una soluzione immediata? Va detto che la nostra cultura aziendale è sempre più sbilanciata sull'organizzazione per processi e procedure (fortunatamente),  e che il top management è spesso disabituato a gestire problematiche che non siano chiare e definite nella loro evidenza. Per crescere sotto questo aspetto è fondamentale la formazione e il coaching di professionisti con analoghe storie professionali, che abbiano sviluppato e possano offrire competenze specifiche. Riconoscere e risolvere problemi è un'attività unica, una sintesi inscindibile di identificazione e analisi con creatività e visione risolutiva. Se riconosco un problema, sono già sulla buona strada per la soluzione. Quindi, cosa si deve sviluppare in un C-level manager per portarlo ad essere un autentico problem-solver? 

Competenza
I vostri "capi" vi osservano per essere certi che abbiate le competenze necessarie per fare bene il vostro lavoro. Il che non significa essere perfetti (nessuno lo è), ma sapere quando e a chi chiedere aiuto, senza ricorrere ad altri ogni volta che si presenta un problema. Ampliate le vostre competenze e integratele con quelle di altri secondo le necessità. La principale competenza per un C-level manager è quella di conoscere i propri limiti. Fate pure degli errori, ma non sempre gli stessi.

Collaborazione
Se siete manager (tanto più se siete un C-level manager)  siete i componenti di una squadra, quindi voi vincete nella misura in cui vince la squadra. Dovete lavorare per sviluppare i punti di forza dei vostri compagni e attenuare le loro debolezze. Non forzate un collaboratore a giocare in un "ruolo" non suo, né cambiategli "ruolo" se è lì che dà il suo meglio. Ricordarsi sempre che l'obiettivo è vincere, non ribadire la vostra predominanza. Quando si presenta un problema, non correte dal vostro "boss" per sottoporgli il tema, evidenziando chi non ha fatto cosa. Piuttosto, riunite la vostra squadra ed esprimete la vostra leadership coinvolgendo le persone sin dall'inizio, quando il loro apporto ha senso, non quando avete già preso una decisione (magari sbagliata).

Responsabilità
Un C-level manager è una persona responsabile e risponde sempre di ciò che decide e fa, soprattutto quando sbaglia. Un consiglio? Quando sbagliate qualcosa, non chiedete mai scusa, ma spiegate, prima a voi stessi e poi ai vostri "capi", perché avete scelto di agire in un modo piuttosto che un altro. Una persona responsabile (sul lavoro) non chiede scusa, soprattutto nella vostra posizione, si assume tutte le responsabilità e dà spiegazioni. Comprendere un problema e risolverlo comporta degli errori che non devono essere scusabili, ma comprensibili. Avete sbagliato? Mettetevi subito in azione per risolvere il problema originario e quello che avete causato con la vostra scelta sbagliata, senza perdere tempo. 

Autonomia
Un C-level manager deve sapersi autogovernare e portare a termine in autonomia i propri mandati. Voi non lavorate su compiti assegnati, ma su obiettivi. Ci sono situazioni in cui dovrete necessariamente farcela da soli e non potrete avvalervi della vostra squadra. In questi casi dovete essere autonomi e capaci di essere soli nelle vostre scelte. 

Maturità
Che cosa s'intende per "maturità" in un C-level manager? S'intende la capacità di reagire in modo adeguato ai problemi, anche serissimi, che si presentano. Evitate di avere reazioni eccessive, magari con l'aggiunta di imprecazioni o altro. Un manager del vostro livello deve imparare a rimanere stabile e calmo, sempre. Mi rendo conto di quanto sia umanamente difficile, ma l'esercizio costante aiuta, poi diventerà un'abitudine consolidata. Davvero vi ricordate di aver risolto problemi urlando e andando "fuori di testa"? Ricordate che dovete sempre proiettare all'esterno l'immagine di una persona che ha sempre tutto sotto controllo, innanzitutto se stesso. 

Buon problem-solving e, mi raccomando, cercate sempre un "perché", mai un "chi", potreste scoprire che il problema siete voi e allora la soluzione la troveranno gli altri. 


mercoledì 23 settembre 2015

Qualche opportuna riflessione sull' Executive Coaching

 Il coaching è tema caldo! Se prima si diceva: "sei messo male, se hai bisogno di un coach!!", oggi si dice: " e chi sarai mai per avere un coach personale!!". Insomma, è diventato uno status symbol. Persino Obama ha il suo coach, tale David Axerold, Chief Strategist della campagna elettorale e oggi suo personal advisor. Atleti, imprenditori, manager, personaggi dello spettacolo, tutti (o quasi) si affidano ad una persona con la quale si confrontano per prendere decisioni e dalla quale ottengono indicazioni sulle modalità interpretative del ruolo che ricoprono. Si tratta di un'élite che fa uso di qualcosa paragonabile ad un farmaco che, per i possibili effetti collaterali e le possibili interazioni, andrebbe prescritto solo su ricetta medica. Sì, perché il coach è persona che si fa pagare (fortunatamente) e, quindi, ha senso solo se i consigli che prodiga vengono seguiti. Ma come si stabilisce chi ha i "titoli" per fare il coach? Per esempio, uno psicologo che provenga dal mondo delle risorse umane, è la persona più adatta ad affiancare un top manager? Oppure, è preferibile un consulente di "mestiere", magari ex manager? Parlando di leadership, i comportamenti di un manager possono essere isolati rispetto alle competenze necessarie per la gestione operativa dell'azienda? E quest'ultime competenze, se accresciute, favoriscono una crescita complessiva del soggetto anche in termini di leadership? Io, ovviamente, ho le mie risposte alle precedenti domande, ma in quest'articolo mi limito a suggerire qualche riflessione che un imprenditore o un manager dovrebbero fare per non sbagliare (troppo).

Che valore porta un coach e che potenzialità libera nella mia azienda? 

Parliamoci chiaro, se l' Executive Coaching è fatto bene è costoso e richiede tempo. Dovrebbe essere riservato alle persone che sono fondamentali per il successo dell'organizzazione. In generale, questo include tutti coloro che operano al cosiddetto C level, dal CEO, al CFO, a tutti i direttori di funzione o Business Unit. Ma quanto è costoso un Executive Coaching e quanto tempo richiede? Anche se esistono grandi differenze di costo in base a molte (troppe) variabili, per un C level coach preparatevi a pagare quello che si paga per il vostro miglior avvocato. Se questo vi sembra eccessivo, considerate che un coach deve avere l'esperienza e le competenze necessarie per cogliere rapidamente la situazione dell'Executive, deve formulare ipotesi e portare sul tavolo idee nuove, credibili e concrete. E data l'influenza che un coach può avere sulle decisioni e le azioni di un dirigente nel corso di un impegno tipico di 6/12 mesi, scegliere un coach "in saldo" può rivelarsi un errore fatale.

Qual è la sfida che state affrontando proprio ora?
Un Executive coach è un professionista esperto di relazioni, organizzazione e di cambiamento comportamentale, il tutto inquadrato in un contesto aziendale.  La precisazione finale è fondamentale, in quanto chiarisce che senza le opportune competenze aziendali NON è possibile affiancare un manager o un imprenditore. Quando un CEO sta lavorando per imparare a gestire al meglio se stesso, coinvolgere gli altri, ecc., ha bisogno di qualcuno che sappia aiutarlo calandosi nella sua dimensione quotidiana. La dimensione quotidiana, cioè operativa, è fatta di problemi concreti (lettura dei numeri, scelte commerciali, scelte organizzative, gestione del Management Team, ecc.) che devono essere affrontati mentre si sta lavorando su se stessi per affinare la propria leadership. Chiunque pretenda di isolare questi aspetti, presentando i "temi della persona" come temi "altri" rispetto a quelli aziendali, deve dedicarsi ai soggetti in quanto tali e non in quanto manager o imprenditori. In sostanza, faccia una professione più in linea con le sue competenze e non improvvisi. Quindi, avete inquadrato esattamente qual è la sfida che state affrontando proprio adesso? Bene, adesso sapete su cosa misurare il vostro interlocutore: deve essere capace di sedere al vostro tavolo e aiutarvi a raggiungere i vostri obiettivi, parlando la vostra lingua.

Quanta voglia avete di lavorare con un coach?
Per cambiare bisogna essere determinati. La vostra motivazione a lanciarvi sfide deve essere autentica. Se non siete i primi a credere nella vostra crescita, perderete tempo e soldi. Il coaching non funziona su persone che lo subiscono o lo accettano sotto pressione. Gli anglosassoni definiscono "coachability" la misura in cui la persona si rende disponibile a lavorare con un coach. I miglioramenti sono il carburante del vostro entusiasmo. Imparate ad essere realistici e a conoscere le vostre resistenze e le vostre debolezze. Il segreto per migliorare se stessi è imparare dagli altri, ma fare a proprio modo!

Ci sono persone chiave dell'organizzazione pronte a sostenere i vostri sforzi per crescere e cambiare? 
Cambiare il proprio modo di pensare e di agire è difficile, anche quando si gode del supporto di altri. Ma se i vostri capi sono scettici, indifferenti o, addirittura, ostili ai cambiamenti che state cercando di fare, le cose diventano esponenzialmente più difficili. il coaching funziona quando i vostri capi vi sostengono nel percorso di crescita. Dev'essere una sfida che vincete anche grazie a loro, non nonostante loro. Avrete bisogno di tailwinds non di venti contrari. Quando le condizioni sono quelle corrette, l' Executive Coaching è il miglior investimento che possiate fare.

Queste sono le riflessioni che vi propongo, fatene tesoro. Sono quattro interrogativi molto semplici, ma vi aiuteranno a porvi i giusti obiettivi e a scegliere il miglior compagno di viaggio.

lunedì 6 luglio 2015

Perché le persone non comprano il vostro (meraviglioso) prodotto?



Il tema riguarda tutte le aziende, dalle più grandi alle più piccole. Anche se il vostro prodotto fosse indubitabilmente il migliore, il più facile da usare e il più evoluto, venderlo non sarà facile. Spesso, non basta neppure che sia il più economico. Ma come sarebbe? Perché "la gente" non capisce il valore del vostro prodotto? Sono tutti stupidi? Diciamo che sono irrazionali, anzi, che tutti noi siamo irrazionali quando diventiamo acquirenti. E' la stessa regola del pedone . Quando l'automobilista è "appiedato" non tollera i soprusi dei "motorizzati", ma non appena torna sul suo mezzo, tolleranza zero per i pedoni. Quindi? Quindi è opportuno capire una semplicissima cosa: l'acquirente è irrazionale e negare questa verità è ancora più irrazionale. Per capire perché le persone non comprano i vostri prodotti è essenziale comprendere alcuni comportamenti che la relazione economica tra soggetti attiva spontaneamente.

Regola numero 1: la paura di perdere non è mai sufficientemente compensata dall'opportunità di guadagnare.

Quando acquistiamo un prodotto o un servizio scambiamo del denaro in cambio di "qualcosa". Quel "qualcosa" ha il grande limite di non essere scambiabile con altro o, meglio, di non avere un valore di scambio universale. Il denaro, intrinsecamente, non ha (quasi) nessun valore. Il suo valore è dato dall'infinita possibilità di scambio. Quindi, è abbastanza normale temere lo scambio tra una cosa che ha valore "universale" con una cosa che ha un valore particolare e specifico. Detto questo, tutti noi, quotidianamente, compriamo cose e servizi, ossia scambiamo il valore universale della moneta con una cosa specifica. Il tema è che al valore intrinseco degli oggetti aggiungiamo il nostro valore percepito. Quindi, questo "valore aggiunto" non è razionalmente dimostrabile. E qui siamo arrivati al punto. Quando acquistiamo qualcosa di nuovo, non abbiamo ancora in mente l'idea di valore che l'accompagna e, conseguentemente, tendiamo a rifiutare lo scambio. Nella nostra mente si materializza una bilancia con due piatti, sul primo "pesiamo" la moneta che ci viene richiesta per lo scambio e sul secondo il presunto valore che otterremmo dallo scambio. Inutile dire che il piatto con i soldi pesa sempre di più.

Regola numero 2: i punti di riferimento sono fondamentali.

Si diceva che, quando siamo acquirenti, tutti (chi più, chi meno) agiamo secondo schemi irrazionali. Il problema è che gli schemi non sono uguali per tutti. Il nostro atteggiamento è condizionato dai molteplici elementi d'influenza che hanno caratterizzato la nostra vita passata e presente. Tutti noi siamo il prodotto delle nostre abitudini, della nostra cultura e dell'ambiente nel quale viviamo. L'immagine di noi stessi che proiettiamo all'esterno è la somma di tutto ciò che più si avvicina alla persona che intendiamo essere, per adattarci al contesto nel quale viviamo. Non solo, ma noi stessi fatichiamo a "ritrovarci" e non riconosciamo più la nostra natura. Immaginiamoci di essere una vettura guidata da un GPS (riconosco che l'esempio è alquanto strano), i vari satelliti che ci localizzano sono fondamentali per comunicare a qualcun altro dove siamo. In pratica, basterebbe comunicare delle coordinate, senza dare ulteriori informazioni, per farci localizzare. L'unico limite di una simile localizzazione è che non riusciremo mai a comunicare le emozioni che ci suscita l'ambiente nel quale ci troviamo (colori, suoni, architettura, ecc.). Le coordinate del nostro improbabile navigatore, sono i nostri punti di riferimento, quelli sulla base dei quali gli altri ci localizzano o, meglio, ci riconoscono. Non solo, ma questi punti di riferimento servono a noi stessi per riconoscerci. Quel che gli altri non possono sapere, ma noi sì, sono le emozioni che accompagnano il nostro "essere" in un luogo culturale piuttosto che in un altro. Le coordinate sono i luoghi dove siamo nati, cresciuti, abbiamo lavorato. Le scuole che abbiamo frequentato. Le persone che abbiamo amato e che ci hanno amato. Quando dobbiamo compiere una scelta, e così torniamo alla nostra natura d'acquirenti, tutti questi punti di riferimento si presentano in un solo istante e ci condizionano, contribuendo a stabilire il valore di scambio che attribuiamo ad un determinato oggetto.

Regola numero 3: non dimenticare mai l' Endowment Effect (l'effetto dotazione).

La traduzione in italiano non rende giustizia al concetto. Endowment significa dotazione in senso lato, ovvero il complesso di cose che possediamo e/o utilizziamo quotidianamente. La nostra "dotazione" comprende l'autovettura, i vestiti, la nostra casa, il pc, ecc.. In qualche misura, noi siamo gli oggetti che abbiamo (gran brutta cosa!!!). Non solo, il valore (ancora lui) che attribuiamo alle cose che abbiamo è di gran lunga superiore a quello delle cose che non abbiamo. Potremmo dire che la "regola numero 3" è un corollario della numero 1, con riferimento non ai soldi, ma alle cose. Cambiare diventa, perciò, un impoverimento della nostra dotazione, un riconoscere che "fuori" c'è più valore. D'altra parte acquistare significa "sostituire" un oggetto o un modo d'essere. Torniamo al titolo di questo articolo: perché le persone non comprano il vostro (meraviglioso) prodotto? Perché adottano uno o più di questi comportamenti. Che si può fare? Si devono mettere in atto contromisure che "muovano" la mente del cliente e lo portino dalla vostra parte. Cominciamo con smontare la regola numero 1. Abbiamo detto che il nostro potenziale cliente percepisce una perdita dall'acquisto del nostro prodotto. In un'ideale bilancia il peso del valore vostro prodotto è inferiore al peso del denaro che costa. Quindi? Quindi bisogna aumentare il valore del vostro prodotto, moltiplicandolo per 10. La vendita è trasferimento di valore, quindi dobbiamo immaginarci di potenziare il prodotto o servizio per 10. Dovete trovare almeno 10 elementi che, complessivamente, valgano 10 volte quanto sta spendendo il cliente. In inglese il sostantivo dwarf significa nano, ma usato come verbo significa "sovrastare", "far sembrare piccolissimo", "eclissare", ecc.. Questo è ciò che il vostro prodotto deve generare nell'immaginario del cliente: generare la sensazione che la somma che sta spendendo sia piccolissima, un decimo del valore di ciò che acquista. Prendere come riferimento il numero 10 non è casuale. Pagare il 10% del valore di qualcosa è simile ad averla gratis. Per ulteriori approfondimenti sul punto, vi consiglio la lettura del libro di Grant Cardone, "The 10X Rule: The Only Difference Between Success and Failure".
Passiamo alla regola numero 2. Qui il tema sono i punti di riferimento, ossia il "brodo" culturale nel quale il nostro cliente è immerso (che brutta immagine!). Il primo problema è conoscere i suoi riferimenti. Tentare di vendere qualcosa a qualcuno senza sapere nulla dell'ambiente nel quale vive è un'operazione (quasi) disperata. L'acquirente, per prima cosa, deve essere collocato nello spazio (dove vive, dove lavora, ecc.) e nel tempo (quanti anni ha, da quanti anni lavora, ecc.). Poi lo si deve collocare "scolasticamente" (è laureato - in cosa?-, diplomato - in cosa?-, ecc.). Che lavoro fa? Insomma, dobbiamo cercare d'intercettare le sue "coordinate". Dobbiamo localizzarlo culturalmente, per capire se il nostro prodotto s'inserisce in modo coerente con il quadro di riferimento dei suoi valori. L'idea di vendere qualsiasi cosa a chiunque è totalmente errata, oltreché, per certi versi, poco etica. Siamo arrivati alla regola numero 3, che sappiamo essere un corollario della prima. L'idea di dotazione comporta un'implicazione molto interessante. Il cliente è disposto a spendere molti più soldi, tempo ed energie per trattenere ciò che ha già, piuttosto che sostituirlo. Quindi? Quindi se gli viene regalato un prodotto o un servizio per un tempo limitato o in una versione limitata, se il prodotto lo avrà convinto, tenderà a mantenerlo e a passare alla versione completa (premium) a pagamento. Questo sistema di vendita si chiama "Freemium Model" e si basa sull'omaggiare l'acquirente con una versione ridotta (nel tempo o nella quantità) del prodotto, per farlo entrare nella sua "dotazione". Si deve lavorare per ottenere l'adozione del prodotto da parte del cliente. Per tutti coloro che vogliano approfondire il contenuto di questo articolo, consiglio la lettura del pezzo di John T. Gourville "Eager Sellers and Stony Buyers: Understanding the Psycology of New Product Adoption".

lunedì 15 giugno 2015

L'età dello sviluppo....delle aziende

I manager di successo sanno che non ci si può fermare mai. Anche se le cose stanno funzionando, si deve sempre essere concentrati sulla crescita, ossia sull'incremento dei profitti e delle vendite. Stressante? Può darsi, ma questo è il mondo della competizione, baby! Come si deve fare per crescere? Le modalità sono molte, ma le più collaudate sono l'apertura a nuovi mercati e/o la creazione di nuovi prodotti. Ovviamente, bisogna scegliere in base alle caratteristiche della nostra azienda, e per fare questo, H. Igor Ansoff nel 1957 ha deciso di aiutarci, pubblicando un articolo sull'Harvard Business Review dal titolo "Strategies for Diversification". In sostanza, Ansoff ha identificato quattro strategie per la crescita:
  1. Intensificare la penetrazione di mercati esistenti con prodotti esistenti (Market Penetration);
  2. Proporre, su mercati esistenti, nuovi prodotti (Product Development);
  3. Proporre a nuovi mercati i prodotti esistenti (Market Development);
  4. Produrre nuovi prodotti per nuovi mercati (Diversification).
La prima opzione è la meno rischiosa (almeno così dice la dottrina). Si tratta di non investire in nuovi prodotti o nuovi mercati, ma di investire sul mercato esistente per incrementare le vendite dello stesso prodotto. Sì, ma come fare? Per esempio, aumentando la comunicazione, oppure raggiungendo il proprio mercato attraverso nuovi canali (pregasi non confondere "mercato" con "canale"). Oppure? Oppure abbassando i prezzi, per aumentare la quota di mercato. E i profitti? I profitti devono crescere in funzione della massa critica creata dalle (nuove) vendite. Ossia, si abbassa la marginalità unitaria, ma, vendendo più unità, aumenta il valore del profitto complessivo. E la crescita? La crescita me la saluti! Tutti sanno che questa scelta, tranne casi specifici, è destinata alla morte del business. Quindi? Quindi, proviamo con l'opzione due.

La seconda opzione si focalizza sullo sviluppo di nuovi prodotti, destinati allo stesso mercato. Gli aspetti positivi sono relativi al fatto che si conosce già il mercato e le sue dinamiche, si tratta "solo" di investire nella produzione di un nuovo prodotto. Facciamo un esempio. L'Harley-Davidson è nata come industria motociclistica (in realtà all'inizio costruiva biciclette "motorizzate"), in seguito ha iniziato a produrre merchandising legato al marchio (abbigliamento, accessori, ecc.). Quindi, stesso mercato (i motociclisti) prodotto nuovo (abbigliamento e accessori). Lo sviluppo si è concentrato su un prodotto nuovo, sfruttando il brand. E se il brand non mi aiuta? Se non ho una "reputation"? La cosa si complica, ma ogni singolo caso va analizzato a parte. In ogni caso, esiste l'opzione tre.

La terza opzione è tra le più semplici da comprendere e tra le più difficili da applicare. Non si sviluppano nuovi prodotti, ma li si vendono in nuovi mercati. I nostri investimenti, quindi, sono concentrati sullo sviluppo del nuovo mercato, ossia in comunicazione, marketing, distribuzione e commercializzazione.  La "customizzazione" (termine ributtante, ma tanto usato) per il nuovo mercato non costituisce la creazione di un nuovo prodotto, semplicemente ne rappresenta un adattamento. Immaginiamo di sviluppare una campagna di promozione turistica del lago di Como (stesso prodotto) per il mercato arabo (nuovo mercato). Evidentemente, dovremo prendere precauzioni circa le diete particolari del mondo islamico. Dovremo offrire un tour per lo shopping, ma il lago di Como è sempre lo stesso. Cambia la comunicazione, il marketing, la distribuzione e la commercializzazione (nel mondo arabo le cosiddette agenzie di viaggi sono molto rare, bisogna attivare altri meccanismi). Ma se io non conosco le dinamiche del nuovo mercato, quanto rischio mi assumo nello sviluppo del mercato stesso? Potrebbe accadere di fare da "apripista" per la concorrenza? Nel caso del nostro esempio, il "prodotto" è fermo (si suppone che il lago di Como non si muova)  e il cliente viene personalmente per "consumarlo". Ma nel caso di prodotti che devono fisicamente essere esportati, il rischio esiste. Quindi? Quindi, non ci resta che esplorare l'ultima opportunità, la quarta.

La quarta opzione è certamente la più rischiosa, si tratta di sviluppare un nuovo prodotto per un nuovo mercato. In pratica, di fare qualcosa che non si è mai fatto prima, per qualcuno che non abbiamo mai visto. E' questa la scelta di aziende che si trasformano in finanziarie, le quali investono gli utili provenienti dal loro business tipico in altri business che non conoscono. La soluzione ottimale è quella di interpretare questa soluzione con un taglio meno netto rispetto al business tipico dell'azienda.

Sembrerebbe che per crescere si debba, necessariamente, passare da un grande rischio, anzi da una vera e propria crisi. Infatti, è così. La crescita è crisi, come descrive bene Greiner (vi invito a leggere l'articolo Cara mi vuoi sposare? Non so! Prima vorrei vedere la curva di Greiner). Ma la crescita non è un opzione, o si cresce o si muore, come nella vita. Lo stesso discorso vale per le aziende. Quindi, si deve crescere e per farlo si devono fare scelte strategiche. La matrice di Ansoff è uno degli strumenti migliori per orientarsi. 

martedì 19 maggio 2015

Cara mi vuoi sposare? Non so! Prima vorrei vedere la curva di Greiner

Romanticismo addio! Le ritualità d'altri tempi lasciano il campo a ben studiate strategie di medio lungo periodo. Le signore sanno bene che le promesse d'amore, una volta sfociate nella sacralità del matrimonio, danno vita a vere e proprie organizzazioni di individui. Ecco perché l'avveduta futura sposa pretende una verifica preventiva dell'esito prevedibile dell'incipiente unione. Ed ecco, soprattutto, perché chiede l'analisi della curva di Greiner, il metodo più utile per valutare quali momenti di crisi incontra un'organizzazione nelle sue fasi di crescita. La signora sì che se ne intende! In realtà, il modello di Greiner è pensato per le aziende, ma l'estensione analogica è tutt'altro che campata in aria. La famiglia è un'entità che, inizialmente, è sospinta dall'entusiasmo creativo dei "fondatori", ma che in seguito diviene una realtà complessa. Per esempio, arrivano i figli, con tutte le esigenze di coordinamento e allocazione di risorse. In seguito i figli crescono e i livelli di delega con loro. Insomma, l'analogia con l'azienda è evidente: ad ogni cambiamento corrisponde un livello di crisi organizzativa. I carichi di lavoro crescono in modo esponenziale e le persone non riescono più a gestire l'ordinata priorità dei loro compiti. Manager che prima erano efficienti e produttivi cominciano a non essere più in grado di gestire i loro compiti, che nel frattempo sono aumentati. Si cerca la crescita e quando arriva porta con sé l'inevitabile crisi. Vale la pena puntualizzare che non è la crescita in sé a portare la crisi, ma è la velocità con la quale la crescita si manifesta. Grazie all'articolo di Larry E. Greiner pubblicato dalla Harvard Business Review nel 1972 e aggiornato nel 1998 (Evolution and Revolution as Organizations Grow), oggi sappiamo descrivere tutte le fasi della crescita, inquadrandole in uno schema di punti d'attesa dei diversi momenti di crisi consequenziali. Prima di addentrarci sul tema "crescita - crisi", diamo uno sguardo al ciclo della crescita in generale.
Figura 1
Innanzitutto, quando si ha la crescita? Quando aumentiamo gli investimenti? Quando l'organizzazione cresce nel numero degli addetti? Quando aumenta il fatturato? Molti di noi sarebbero portati a scegliere quest'ultima ipotesi, ma forse è necessaria qualche riflessione. Non sempre l'aumento di fatturato è un segnale di crescita complessiva. Per esempio, se i profitti non crescono, l'azienda non è in grado di autofinanziarsi lo sviluppo attraverso nuovi investimenti. La sensazione è che lo stesso concetto di crescita non sia così banale. La crescita è l'effetto di più indicatori interconnessi, posti in posizione ciclica l'uno rispetto all'altro (figura 1). Convenzionalmente, partiremo dalla crescita finanziaria, come effetto dell'aumento del fatturato e del profitto. L'aumento di disponibilità finanziaria consente un incremento delle risorse, finalizzato alla crescita strategica degli asset. Ne consegue una crescita strutturale dell'azienda che, utilizzando le risorse aggiuntive, incrementa il livello di occupazione. L'ulteriore crescita è quella dell'organizzazione con una necessità di "direzione", ossia di razionalizzazione delle funzioni, attraverso una maggiore formalizzazione dei ruoli. La nuova "direzione" sviluppa nuovi prodotti e nuove alleanze strategiche, lavorando per migliori performance, dalle quali deriva la crescita del fatturato e dei profitti, e così via. Questa è la proiezione di una crescita non per fasi, ma per indicatori interconnessi.
Figura 2
In questo schema non compare la relazione tra crescita e crisi, che è invece rappresentata nel modello di Greiner ( figura 2). Quali sono gli assi entro i quali il modello si sviluppa? Il tempo (età dell'azienda) e la dimensione dell'organizzazione. Cosa s'intende per dimensione dell'organizzazione (Size of the Organization)? Molti hanno deciso che il numero dei dipendenti possa essere la risposta, altri pensano che la risposta sia il fatturato. La risposta ce la dà lo stesso Greiner: "A company's problems and solutions tend to change markedly as the number of its employees and sales volume increase". Quindi, la crescita è l'effetto combinato dell'aumento del fatturato e degli addetti. Non esiste una relazione causa-effetto (post hoc propter hoc), tanto che la consequenzialità può essere anche invertita. Un dato è certo, la crescita comporta una crisi. D'altra parte il concetto stesso di crisi è quello di un punto di svolta. In inglese se cercate sul dizionario la parola "crisis" troverete la definizione "turning point", in italiano potremmo utilizzare l'ancora più tranquillizzante termine "transizione". Non intendo annoiarvi elencando e spiegando le cinque fasi identificate da Greiner, tanto le potete perfettamente desumere dal grafico. Ciò che davvero conta è che manager e imprenditori comprendano l'importanza di questo strumento e la sua enorme potenzialità. Il modello di crescita di Greiner consente di pianificare la propria crescita, identificando la fase nella quale ci si trova al momento. Di seguito propongo alcuni passaggi che possono aiutare ad applicare il modello, adattandolo alle reali circostanze di business:
  1. Cercate di capire in che fase si trova la vostra organizzazione.
  2. Domandatevi se la vostra organizzazione sta lasciando un periodo di stabilità per avvicinarsi a un periodo di "crisi", ovvero di transizione. Eccovi alcuni "indizi":
    • Le persone sentono che le indicazioni del management e le procedure aziendali rispecchiano esattamente il lavoro che routinariamente viene già svolto.
    • Le persone non si sentono sufficientemente premiate in relazione all'impegno profuso.
    • Le  persone sono insoddisfatte e il turnover del personale è più alto del normale.
  3. Domandatevi cosa significherà per voi e per il vostro team la transizione. Forse dovrete:
    • Delegare di più?
    • Prendere più responsabilità?
    • Specializzarvi in uno specifico prodotto o mercato?
    • Cambiare il modo in cui comunicate?
    • Incentivare e premiare il vostro team con modalità diverse?
  4. Pianificate una serie di azioni che rendano la fase di "crisi" o transizione il più possibile indolore.
  5. Ripetete l'esercizio con cadenza annuale, chiedendovi sempre a che punto siete del modello e quanto distanti dal prossimo punto di transizione o "crisi".
Il modello di Greiner è semplice, ma estremamente efficace. Non solo, ma permette di salvare le aziende dai passaggi critici e, se applicato correttamente....può salvare anche qualche matrimonio.

venerdì 8 maggio 2015

Il vecchio Shumpy aveva capito tutto!

Chi è Shumpy? Shumpy, pardon, Joseph Schumpeter è un economista austriaco noto per aver messo in stretta connessione i cambiamenti tecnologici con i cambiamenti industriali. In pratica, attorno alla fine degli anni "30 del secolo scorso, aveva teorizzato che i cicli economici fossero il risultato dei cambiamenti innovativi. Inoltre, riteneva che prodotti o servizi rivoluzionari fossero gli elementi ispiratori della crescita nel medio lungo periodo, ma nel breve distruggevano le istituzioni e le organizzazioni esistenti. Tutto ciò era quello che lui chiamava la "creatività distruttiva". Molto interessante, e a noi che ce ne ......? Non siate scortesi! Questa breve introduzione serve a presentare il macro-economista Shumpeter, ma a noi interessa il suo risvolto aziendale, così attuale da indurci a rinominare l'autore con un più friendly Shumpy. Shumpy ha diviso in tre fasi il processo di cambiamento tecnologico:

  1. Invenzione
    Fase nella quale vengono concepite le nuove idee.
  2. Innovazione
    Fase nella quale le nuove idee si sviluppano e diventano beni o servizi vendibili.
  3. Diffusione
    Fase nella quale i nuovi prodotti o processi si diffondono sul mercato potenziale.
Shumpy aveva perfettamente compreso che l'innovazione non è un fenomeno di prodotto, ma investe l'intera cultura della produzione. Facciamoci qualche domanda pratica: il navigatore satellitare in auto è stata una novità o un'innovazione? Un nuovo prodotto, in quanto nuovo, è sempre innovativo? Un'innovazione è sempre identificabile con un nuovo prodotto? La (nuova) tecnologia è sempre innovativa? Le domande potrebbero essere mille, ma a noi interessa solo una cosa: in azienda tutto questo cosa significa? Significa che tutto ciò che abitualmente identifichiamo con la parola "innovazione" è molto più di un'idea. Il successo di un nuovo sistema produttivo, con un alto tasso di innovazione tecnologica, deve necessariamente coprire l'intero processo di Shumpy (Invenzione, Innovazione e Distribuzione).
La penetrazione del mercato e il successo commerciale devono essere il naturale risultato di questo processo. Se l'utilizzo di satelliti per la geo-localizzazione non avesse avuto riscontri economici non ci sarebbe stato lo sviluppo industriale del settore, con il conseguentemente sviluppo di innovativi processi produttivi. L'innovazione in campo economico è efficace se diventa un fenomeno culturale che cambia il modo di pensare ed agire. Questo spiega perché in alcune aziende il cambiamento fallisce: perché non c'è un contemporaneo processo di Invenzione, Innovazione e Distribuzione di una nuova cultura. Una "cosa" nuova non cambia i riferimenti culturali produttivi ed organizzativi, una "cosa" innovativa sì. Shumpy aveva compreso che l'introduzione di nuovi prodotti richiede l'innovazione dei processi, che, a sua volta, richiede l'innovazione dei metodi e delle pratiche manageriali. In questo senso l'impostazione di Shumpy è ancora attualissima. La sua "creatività distruttiva", oltre che interessare le istituzioni e le infrastrutture sociali, ha un primo e fondamentale impatto sull'organizzazione aziendale. In realtà, Shumpy si concentrò sullo studio dei cicli del business più che sull'innovazione organizzativa in se stessa. Ma la lezione vale comunque. Dammi il cinque (anzi il tre), Shumpy! 

mercoledì 6 maggio 2015

E' un leader: mettetegli la camicia di forza!

Vorrei introdurre il tema sulla leadership partendo dallo studio del dr. Nassir Ghaemi. Immagino che a molti sia sconosciuto, eppure questo signore sta riscrivendo il concetto di leadership. Il dr. Nassir gestisce il programma sui disturbi dell'umore al Tufts Medical Center di Boston e nel 2011 ha pubblicato il libro: "First Rate Madness: Uncovering the Links Between Leadership and Mental Ilness. Lo studio è molto interessante e porta casi estremamente significativi trattando di personaggi quali Lincoln, Churchill, Gandhi, Martin Luther King Jr. e JFK. Insomma, un vero leader ha seri problemi mentali. Anzi, l'ordine logico va modificato. Solo chi ha seri disturbi mentali può essere un vero leader. Ovviamente, non tutte le persone affette da disturbi mentali sono leader. Questo ricordiamocelo quando andiamo a votare. Tornando a noi, cosa caratterizza un leader? E' un visionario. E' una persona che crea un modello di futuro possibile. Non solo, rende il suo modello un elemento di motivazione e ispirazione per altre persone che si sentono coinvolte e impegnate per realizzarlo. Il leader è un folle che spende tempo ed energie per assistere e formare il suo team in vista di un obiettivo affascinante e coinvolgente, ma tutt'altro che certo e sicuro. Non tutti i leader hanno le stesse "visioni", ci sono leader sportivi, leader politici, leader religiosi, leader culturali e leader aziendali. Noi ci occupiamo di questi ultimi. Chiariamo subito che "visionario" non significa "sognatore". La follia di un leader aziendale è lucida e realistica. E' la proiezione di una meta lontana, ma con la scansione precisa delle priorità per raggiungerla e la corretta indicazione della direzione da seguire.
Un leader aziendale è concentrato sui punti di forza della sua organizzazione e utilizza strumenti razionali come "Le cinque forze di Porter". la PEST Analysis, l'USP (Unique Selling Proposition) Analysis, la Core Competence Analysis, la SWOT Analysis, ecc. Insomma, un leader è un folle, non un improvvisatore! E' un problem solver proattivo e rivolto al futuro ed è questo che lo evidenzia e lo stacca dalla massa. E' un ispiratore, un comunicatore che sa convincere con la forza delle motivazioni. Per fare tutto questo utilizza la Teoria dell'Aspettativa:
  1. L'aspettativa che il duro lavoro porta a ottimi risultati;
  2. L'aspettativa che gli ottimi risultati comportano premi e incentivi.
Ma perché un leader è credibile? Perché le persone gli riconoscono il potere della conoscenza e dell'esperienza. Un leader ha chiaro in mente l'obiettivo da raggiungere ed è in grado di misurare i  risultati parziali raggiunti dal suo team. Come? Con metodi come il Performance Management e i KPIs (Key Performance Indicators). Non perdiamo di vista ciò che abbiamo detto all'inizio, il leader è una persona disturbata. E' qualcuno che non ha un buon rapporto con la routine, anzi, ha sempre bisogno di sentirsi al centro di una sfida. Ma non è un vincitore solitario, è naturalmente portato al gioco di squadra. Vuole sentirsi "dentro" le cose che succedono e non vuole sentirsi escluso. Un esempio di approccio perfetto per un leader è il Management By Wandering Around (MBWA) una pratica non più nuovissima, ma efficacissima. Tutto qui? Niente affatto, un leader sa che la sua squadra necessita di costante supporto e formazione.
Lo sviluppo personale e quello del team sono passaggi irrinunciabili per un leader. Il suo prepotente narcisismo non è mai solo autocompiacimento, ma un mezzo per sedurre i suoi compagni di viaggio e per trasmettere contenuti e modalità operative. Esistono dei modelli che supportano i leader in questo compito, tra questi citiamo i Belbin's Team Roles e la Teoria di Bruce Tuckman (Forming, Storming, Norming and Performing). Un leader, un vero leader, tra i tanti disturbi mentali ha anche una perversa propensione al perfezionismo. E' un attento sollecitatore di feedback, per avere sempre la certezza che tutti stiano operando nella giusta direzione. Insomma, credo che ormai sia chiaro che con il termine "leader" troppo spesso si siano identificati dei modesti "capi", ma non degli autentici leader. Non è un caso che la "normalità" non rappresenti una dote da leader. A questo punto è legittimo domandarsi: leader si nasce o si diventa? La risposta è.......scusate, ma non ho più tempo, mi stanno riportando in manicomio!

martedì 21 aprile 2015

Vorresti fare il consulente, ma non hai le competenze? Nessun problema! Ecco la guida per imbrogliare il prossimo.

Consulente di direzione? No problem! Quella del consulente di direzione è un'attività che richiede un'eccellente competenza tecnica e una comprovata esperienza sul campo, tutte cose molto difficili da trovare insieme. Quindi? Keep calm! Di seguito ti svelo i segreti per diventare un "bravissimo" consulente, in assenza di preparazione ed esperienza. L'unica cosa che devi fare è imparare pochi segreti, poi sarai pronto per partire. Cominciamo col dire che un perfetto consulente di direzione dà sempre l'impressione di sapere quello che fa. I clienti devono avere la netta sensazione che tu "sai il fatto tuo". Ricorda: un consulente ha sempre la risposta per tutto. Non hai la risposta? Nessun problema, fingi. Fingi di averla. Ostenta sempre sicurezza e se non sai qualcosa inventa una risposta credibile. Ricorda: la verità non si dice, si comunica! E adesso i trucchi del mestiere.

1. I quadranti magici
Non sai cosa sono? Te lo spiego in due parole. La Gartner Inc. è una società di consulenza statunitense che adotta i "quadranti magici" per analisi qualitative del mercato. Anzi, per essere più precisi, è un loro brand. Noi le chiamiamo anche matrici. I quadranti magici saranno i tuoi migliori amici. Immagino che ti stia preoccupando sul cosa mettere nei quadranti. E' giusto, stai imparando. La risposta è: quello che vuoi. La matrice, per un mistero (fortunatamente) irrisolto, ha il potere di trasmettere valore.
E' un mezzo potente di persuasione. Quindi, metti nei quadranti quel che vuoi. Un buon metodo è di avere a disposizione una lavagna per disegnare i quadranti e, ad ogni inserimento di parole a caso, prendersi qualche momento per pensare. Ovviamente, non dovrai farlo davvero. Col tempo imparerai a simulare perfettamente lo sguardo immerso nel vuoto alla ricerca di contenuti nascosti. Il cliente sarà molto gratificato dal fatto che ti stai concentrando sui suoi problemi.

2. Proporre un'alternativa idiota
Ricorda, tutti i suggerimenti che darai al cliente saranno ignorati. Immagino che ti stia chiedendo: "ma non avevi detto che il consulente deve sempre avere delle risposte?" E' vero, ma devi capire che la tua consulenza di direzione è disonesta e si basa sul principio che il tuo cliente non ammette di avere un problema e tu non ammetti di  essere incompetente. Per governare questa situazione adotterai il seguente schema:
a. Senza dilungarti in spiegazioni, dichiari di aver compreso il problema.
b. Proponi un'idea banale, ma ragionevole, soprattutto semplice. Ricorda che potresti essere tu a doverla implementare.
c. Fai seguire l'idea semplice e ragionevole da un'idea assolutamente idiota e impercorribile.
d. Presenti le due idee come gli estremi delle soluzioni possibili e lasci al cliente la possibilità di scegliere. 
e. Il cliente, ovviamente,  sceglierà l'idea più semplice, valutandola la più ragionevole (in effetti in piccola misura lo è) contrapposta alla totale idiozia dell'altra idea, che vedrà come impercorribile. Insomma, se sarai stato capace, il cliente sceglierà la soluzione banale, perché la valuterà ragionevole e scarterà l'idiozia, perché la valuterà impercorribile. La tua incompetenza e la tua disonestà saranno salve!

3. Condividi una storia falsa e senza senso di un altro cliente (che non esiste)
La consulenza professionale richiede preparazione, competenza ed esperienza sul campo, l'abbiamo già detto. Questi requisiti sono essenziali per dimostrare, magari con esempi concreti, la tua storia di successi.
Un professionista di provata capacità non si sottrae a dare indicazioni sulle sue precedenti esperienze, pur nel rispetto dell'opportuna riservatezza dei clienti. Ma tu sei un imbroglione, come possiamo aggirare il problema? Non è impossibile che un tuo cliente ti chieda se hai già fatto un certo tipo di lavoro e con quali aziende. Come rispondere? Innanzitutto, fai immediatamente appello ad acronimi come: NDA (Non Disclosure Agreement) o MSA (Master Services Agreement). I professionisti seri li usano per proteggere i clienti e, quindi, sono un atto di correttezza. Nel tuo caso serviranno a proteggere te e la tua incapacità. Dichiara subito che non sei autorizzato a dare informazioni sui tuoi precedenti incarichi. Al massimo puoi fare vaghi riferimenti a precedenti esperienze. Questo non sarà soddisfacente per il tuo cliente, ma con un po' di esperienza, imparerai a descrivere storie particolarmente verosimili. Nel frattempo, ti fornisco un template che potrai utilizzare all'inizio:

"Recentemente uno dei miei clienti, che opera nel settore "inserisci il settore", ha avuto lo stesso problema e insieme abbiamo deciso di affrontare la situazione così "inserisci una soluzione vaga" con il seguente risultato "inserisci un valore a caso, ma che indichi un successo". Il vostro caso, però, è unico e quindi dobbiamo trovare una soluzione su misura."

Quali sono i vantaggi di questa "storiellina":
  1. Non dà nessun dettaglio significativo sulle tue precedenti esperienze, d'altra parte sei un "consulente" e non puoi condividere certe informazioni;
  2. Dimostra che sai cosa stai facendo e che lo hai già fatto altrove;
  3. Ti assolve completamente da eventuali fallimenti, d'altra parte il "caso" del tuo cliente è unico, quindi non si esclude che anche la migliore soluzione possa fallire.
4. La campana di Gauss

Non ti spaventare! A noi interessa solo il disegno. La curva, o campana, di Gauss è una funzione che indica che una serie di dati relativi ad un andamento casuale di una certa serie di fenomeni tende a concentrarsi verso il valore medio dei dati stessi (cioè dove la campana è più alta). Sì, ma a che serve? Serve a spiegare che l'andamento di un fenomeno si distribuisce verso i suoi valori medi. Ovvio, che non devi calcolare i valori, anche perché non ne saresti capace. Basta disegnare la campana e (di)mostrare la concentrazione. Piazza qua e là delle frecce sulla curva  a supporto di quel che stai dicendo e il gioco è fatto.

5. Il trucco dei "perché?"
Il trucco dei "perché" è estremamente efficace, pur nella sua assoluta semplicità. Di cosa si tratta? Devi sempre chiedere il "perché" di ciò che ti viene descritto dal cliente. In realtà nulla o poco ti interessa, ma darai la sensazione di seguire attentamente ciò che ti viene descritto.
Non solo, ma quando una cosa non ti è chiara, chiedendo il "perché" di quella scelta o quella pratica, costringi l'interlocutore a spiegarti non il "perché", ma cosa sta dicendo. Per te che sei un imbroglione incompetente è manna! Ma non è finita. Attraverso i "perché" metti in evidenza la caducità delle scelte fatte in azienda. Tutti sanno, specie i bambini, che chiedendo il "perché" di tutto si arriva sempre ad un punto morto. E così è anche nel nostro caso. Si arriverà al punto in cui al tuo ennesimo "perché" la risposta non sarà più una spiegazione, ma l'identificazione di qualcuno in azienda che ha deciso in quel modo. Tu non ti sei esposto, ma nel cliente si insinua l'idea che il suo manager non sia stato particolarmente avveduto. Un consulente di direzione sa perfettamente che "sotto indagine" sono i processi, non le persone. Ma tu sei un incompetente e per accreditarti devi trovare una vittima, anzi, la fai trovare al cliente. Conseguentemente, ne deriverà un incarico per mettere ordine in quella determinata area. Per te che sei un cialtrone, è tutto lavoro!

6. Il dogma del metodo
Qui ti chiedo di prestare la massima attenzione. Sì, perché sto per svelarti uno dei segreti più delicati che, se ben gestito, ti consente di ottenere grande credibilità senza essere smascherato troppo facilmente. Si tratta dell'utilizzo di un metodo, o modello, di consulenza. Immagino che non sappia nemmeno di cosa si stia parlando, ma questo non deve spaventarti. Gli studiosi di dinamiche aziendali (ma anche personaggi che hanno fatto il tuo stesso percorso) nel corso degli anni hanno proposto modelli di gestione con una forte impostazione metodologica. Ti farò qualche esempio. Negli anni sessanta Jay Wright Forrester, insegnante del MIT, propose un modello denominato "System Dynamics". Questo modello mette in relazione il mercato con l'organizzazione aziendale.
Nel 1980 alcuni consulenti di McKinsey misero a punto un modello  denominato delle 7 "S", dove si teorizzava l'eccellenza organizzativa, nella misura in cui le 7 "S" fossero state allineate. Per tua comodità ti elenco le "S": Strategy, Structure, Systems, Staff, Style, Skills, Shared Values. Poi ci sono i modelli di Porter: le 5 forze e la Value Chain Analysis. Chiudo il mio elenco con il recentissimo Blue Ocean Strategies del 2005. Ti posso garantire che su internet ne trovi quanti ne vuoi. Scegli quello che meglio puoi seguire pedissequamente. Ti sorprenderai di quanto lavoro troverai già fatto e quanta autorevolezza guadagnerai con il cliente. Ma l'aspetto più interessante deve ancora venire! Il tuo metodo (quale esso sia) può essere spacciato per un modello di business, quindi il cliente dovrà implementarlo e, quasi certamente, fallirà in tutto o in parte nella sua applicazione. Questo ti permetterà di introdurre un altro modello e ripetere l'intero processo.

Dimmi la verità, cominci a crederci anche tu alla "storia" del consulente di direzione. E fai bene. Credimi, quando avrai la piena padronanza dei miei trucchi, scoprirai di avere tantissimi "colleghi" disonesti come te. Adesso, però, devo metterti in guardia da alcuni inconvenienti. D'altra parte lo sai, tutte le iniziative truffaldine hanno delle controindicazioni.. La prima, e più banale, è che quest'articolo lo leggono anche imprenditori e manager. La seconda è che imprenditori e manager, anche se non hanno letto quest'articolo, sono sempre più preparati e competenti. La terza è che alcuni dei cialtroni tuoi pari che incontrerai, saranno "coperti" da brand prestigiosi e, quindi, tu sarai automaticamente messo fuori gioco.La quarta è che potresti incrociare un collega serio e preparato, il quale non impiegherà più di dieci minuti per smascherarti, se possibile, davanti al cliente. Che altro aggiungere? Ah, fondamentale, se hai una coscienza liberatene.

lunedì 13 aprile 2015

Cercasi novello Frankenstein per consulente di direzione....mostruoso!


Il mostro di Frankenstein, come tutti sapranno, è una "creatura" composta dal corpo di un impiccato e vari pezzi di altri cadaveri, qualcosa di molto diverso da George Clooney o Brad Pitt. Ma la cosa interessante è che scegliendo i "pezzi" migliori si dovrebbe ottenere il miglior risultato possibile. In quest'articolo proverò a comporre il nostro "mostro", ovvero il consulente di direzione ideale, facendomi consigliare dai Recruitment Manager delle principali Consulting Firms. Partiamo da Valentine Troutaud, Senior Recruiting Coordinator di Boston Consulting Group, che indica nella capacità analitica il primo "pezzo". Insomma, bisogna essere capaci di analizzare un problema. Ma cosa significa esattamente analizzare? In estrema sintesi, significa spezzettare una cosa nelle sue componenti più piccole, per poterla comprendere "dall'interno", ossia attraverso i suoi fattori costituenti. Ma come faccio a sapere quando mi devo fermare? Intendo dire, fino a che punto posso "spezzettare" una cosa senza ridurla in inutili frammenti che non mi restituiscono nessuna informazione? Immaginiamoci di dover studiare un prato e che si decida di analizzarlo per comprenderne lo stato di salute. Cominceremo con isolarne una parte, un pezzo di prato che sappiamo avere le stesse caratteristiche di tutto il restante prato. Poi cominceremo a guardare i fili d'erba più da vicino, cercando di capire come sono ancorati al suolo e che tipo di terra li circonda. Poi sacrificheremo un filo d'erba per studiarne le radici. In seguito, potremmo decidere di prendere il filo d'erba per portarlo in laboratorio e osservarlo al microscopio. Il livello di profondità del microscopio ci permetterà di vedere le cellule che lo compongono.
Ma potremmo non essere soddisfatti e allora vorremo andare più in profondità per vedere le molecole e poi gli atomi che lo compongono. E poi...scusate ma mi sono perso. Qual'era il problema? Ah sì, studiare lo stato di salute del prato. Forse abbiamo esagerato con l'analisi. E questo è il punto. Quando si parla di Analitycal Skills si dovrebbe spiegare che per un consulente di direzione è fondamentale sapere quando fermarsi. Il livello di dettaglio è assolutamente insignificante se non è funzionale all'attività decisionale. L'analisi deve continuare solo fin quando non intercettiamo il meccanismo sul quale ci interessa intervenire. Ma per intercettarlo, dobbiamo riconoscerlo. Sul fatto che un problema debba essere scomposto nei suoi sotto-componenti siamo tutti d'accordo, ma non sostituiamo la diagnosi con l'analisi . L'analisi serve se scomponiamo qualcosa per cercarne un'altra. Potremmo esserci sbagliati nella diagnosi, ma non possiamo rinunciare ad essa, altrimenti le nostre capacità analitiche sono totalmente inutili. Dobbiamo selezionare i dati raccolti, analizzarli e trarne le indicazioni per una soluzione creativa. Il Data Mining ha raggiunto livelli straordinari ed esistono software sofisticatissimi che forniscono gli "atomi" informativi  più sottili, ma la nostra capacità analitica ci deve dire quando fermarci per riaggregare le informazioni dando vita alla soluzione. Bene, il primo pezzo l'abbiamo. Adesso dobbiamo trovare il secondo e l'indicazione ce la dà Elizabeth Bird, Recruitment Manager di Integration Management Consulting: l'iniziativa
L'iniziativa è una caratteristica irrinunciabile. Il consulente di direzione deve capire quando è necessario intraprendere o proporre uno "scatto" in avanti. L'iniziativa è la capacità di rispondere tempestivamente alle sollecitazioni che il contesto propone. Se un consulente capisce che un cliente può migliorare le sue performance deve predisporre tempestivamente una proposta operativa e sottoporla alla direzione. Iniziativa, ossia capacità di iniziare qualcosa autonomamente. Essere propositivi e, quindi, liberi. Sì, perché l'iniziativa è una dote che il consulente sviluppa se è e si sente libero: libero dai condizionamenti del cliente, dalla preoccupazione dell'output che dovrà produrre, dalla preoccupazione dei costi che dovrà proporre, dalla preoccupazione di non guadagnare abbastanza. L'iniziativa di un consulente di direzione deve essere figlia della sua competenza, della sua libertà e della sua assoluta correttezza. E adesso abbiamo anche il secondo "pezzo" del "mostro". Ora siamo arrivati al terzo "pezzo" e lo chiediamo a Will Cummings, Consulting Student Recruitment Manager di PricewaterhouseCoopers: la flessibilità. Essere capaci di adattare se stessi alle diverse situazioni è un requisito irrinunciabile. Un consulente di direzione si interfaccia con diverse persone che svolgono diverse mansioni all'interno dell'azienda. Inoltre, i risultati del suo lavoro deve saperli presentare a diversi tipi di audiences con differenti necessità e capacità recettive. La flessibilità consente agli interlocutori di essere se stessi senza condizionamenti e, quindi, permette al consulente di direzione di raccogliere informazioni utili e autentiche al netto di preoccupazioni e timori. Avrete già sentito il detto latino frangar, non flectar (mi spezzerò ma non mi piegherò), dimenticatelo, nella consulenza vale il contrario. Ovviamente, non mi riferisco ai convincimenti o alla statura morale del consulente, per i quali il detto è validissimo, ma agli atteggiamenti e al modo di porsi. Bisogna essere flessibili e non irrigidirsi mai, è inutile e non aiuta a rendere il giusto servizio al cliente. Quindi flessibilità, ecco il terzo "pezzo". Ma a Will Cummins chiediamo un pezzo in più, anche perché lui gentilmente l'ha offerto in una sua intervista: la capacità comunicativa. Credo che spendere troppe parole sia inutile. La comunicazione è la base di tutte le attività umane e la consulenza di direzione non fa eccezione. La comunicazione non è solo ciò che riusciamo a dire o a scrivere, ma è l'intero nostro essere nei luoghi nei quali ci presentiamo. Se a una festa in maschera ci presentassimo vestiti da tranviere, tutti penserebbero che siamo stati molto originali. Ma se il nostro lavoro fosse quello di tranviere e ci presentassimo al circolo ricreativo dell'azienda municipale, nessuno penserebbe che siamo particolarmente originali, anzi. 
Il contesto nel quale operiamo e ciò che in quel contesto vogliamo comunicare è fondamentale. Non mettere in relazione ciò che trasmettiamo con il luogo e le persone destinatarie del nostro messaggio è un errore che può risultare fatale. Potrò passare per un consulente démodé, ma un medico incontrato per strada in jeans e maglietta è uno sportivo, in sala operatoria se lo vedo con il camice verde e la mascherina mi sento più tranquillo. Quindi il mio consiglio è: comunicate ciò che siete e che cosa volete e dovete rappresentare per il cliente. A voi la scelta se indossare o meno "il camice". Bene, abbiamo anche il quarto pezzo. Il mostro comincia e delinearsi, ma siamo ancora lontani. Il prossimo pezzo lo chiediamo ad Amelia Scott, Graduate Recruitment Manager di PA Consulting Group: la capacità d'influenzare. Diciamo che questo "pezzo" è parzialmente coperto dalla capacità comunicativa, ma la capacità d'influenzare è qualcosa di più specifico. Influenzare significa convincere, trasmettere la propria sicurezza sugli argomenti che stiamo presentando. I grandi influenzatori sono persone che coinvolgono gli altri e trasmettono il loro entusiasmo per un'idea. Sono persone che, grazie alla loro credibilità, conquistano le persone che li circondano e le portano a sentirsi parte di un progetto. Attenzione, non confondiamo i cialtroni che in modo subdolo raggirano il prossimo. La linea di demarcazione non è sottile, come qualcuno pensa, ma è molto chiara e netta. Un consulente di direzione, che sia anche un influenzatore,  è una persona che affascina con la lucidità delle argomentazioni e la razionalità delle idee presentate. E' un seduttore che utilizza la ragione delle cose per conquistare le persone che vuole aiutare, che peraltro lo pagano per questo. I mistificatori sono altra cosa, sono personaggi loschi che hanno passato la loro vita ad esercitarsi per sedurre le persone solo sulla base di argomenti vuoti e inesistenti. So di non farmi molti amici, ma credo che parte delle tecniche di vendita esistenti andrebbero rilette alla luce di questa mia modesta riflessione. Comunque, restiamo al tema, bisogna essere influenzatori e, quindi, persone capaci di rendere lucidamente comprensibile ciò che vogliamo trasmettere, ottenendo anche l'entusiasmo di chi ci circonda. 
Il puzzle si sta componendo, vedo la forma del mostro concretizzarsi, ci siamo. Però, abbiamo ancora bisogno di un pezzo e lo chiediamo a Gillian Bray, HR Manager di CHP Consulting: le capacità interpersonali. La definizione suona vaga o già compresa nei "pezzi" già visti, ma non è così. La capacità di condurre relazioni interpersonali più che attenere ad un "fare" riguarda l'atteggiamento che assumiamo quando siamo passivi rispetto all'agire degli altri. Per esempio, sappiamo ascoltare? Siamo capaci di essere davvero attenti e interessati a ciò che le persone ci dicono? Un consulente di direzione deve essere capace di portare sicurezza e non insicurezza. Non è vero, come molti consulenti un po' complessati pensano, che un atteggiamento ieratico aggiunge prestigio. La solennità di alcune persone è pari solo alla solennità delle sciocchezze che dicono. Incutere rispetto con atteggiamenti distaccati e distanti complica la qualità dell'interazione, con il risultato di impoverire l'efficacia del servizio che stiamo offrendo. Il consulente di direzione non è invitato ad una recita scolastica dove svolge il ruolo dell'intelligente. E' chiamato (e pagato) per risolvere problemi e/o migliorare i risultati esistenti, il tutto in armonia con le persone con le quali deve lavorare. La famosa qualità esposta in tanti CV: "capacità di lavorare in team", cosa significa? Significa essere in grado di gettare tanti ponti quante sono le persone con le quali lavoriamo, per favorire il contatto e la comunicazione con ognuna di esse. Mamma mia! Ecco il mostro! E' orribile! (sento già i "parla per te" di qualche collega). Eppure...eppure manca qualcosa. Sì perché i pezzi ci sono, ma ho come la sensazione che non "stiano insieme". Certo! Manca il collante, mancano le suture (tipiche di ogni mostro che si rispetti) che legano i pezzi e permettono alla "creatura" di muoversi libera e sicura. Per le le suture ci penso io. La prima sutura è il senso del business
Il consulente di direzione non è un consulente qualsiasi, insomma non è il commercialista o l'avvocato, consulenti preziosissimi e insostituibili per le loro specifiche discipline. Il consulente di direzione deve essere un animale d'azienda (animali, mostri...che strano articolo!). Vendite, marketing, margini, cassa, personale, organizzazione, tutto è sempre parte del tutto. Non si può svolgere questa professione senza avere un cervello "multitasking". E adesso la seconda sutura: confidenza con i numeri«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.» (Galileo Galilei, Il Saggiatore, Cap. VI). Niente male la citazione, eh? A proposito, grazie Wikipedia di esistere. Ma torniamo a noi. Se quel che Galileo, quasi quattrocento anni fa, diceva per l'universo è vero, non vi dico per l'azienda. La matematica è la fedele compagna del consulente di direzione, ogni fenomeno aziendale ha, in una misura o nell'altra, un impatto numerico e, quindi, è misurabile. Lo so, ci sono molte cose che non lo sono, ma per ricondurre (quasi) tutto a razionalità la matematica è lo strumento migliore. 
"Misurare" è il verbo da tenere sempre presente quando si lavora. E se ci imbattiamo in qualcosa di difficilmente misurabile (caso non raro), dobbiamo tentare una stima numerica, almeno delimitando l'ambito matematico nel quale, a grandi linee, un certo fenomeno può ricadere. Attenzione, non sto dicendo che tutta l'attività deve ridursi a calcolo, ma quando siamo costretti a "stringere" le cose dentro le esigenze della razionalità, la logica matematica è la migliore alleata. Tutti noi tendiamo a decodificare la realtà in termini quantitativi. Se qualcuno vi dicesse che si trova in una stanza con un "sacco di persone", a quante persone pensereste? Un bel po'. Si, ma approssimativamente, quante? Boh! Se, invece, qualcuno vi dicesse che si trova in una stanza con una "ventina" di persone non vi ha dato un numero esatto, ma nella vostra mente cominciate figurarvi un'immagine del gruppo di persone presente in quella stanza. Non vi aspetterete che ci siano cento persone, ma nemmeno dieci.  Il numero ci serve, usiamolo. Mi sembra che il mostro tenga abbastanza bene, ancora una sutura e ci siamo. Eccola: la passione. Qualsiasi commento all'importanza della passione sarebbe inutile e noi non facciamo cose inutili. Bene, adesso il mostro sta in piedi e cammina da solo. E' spaventoso, enorme, ha un testone gigantesco. Però, devo confessare che, a ben guardare, ha un aspetto simpatico e familiare, d'altra parte è un collega. E che collega!!

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sabato 28 marzo 2015

....e poi ci sono le "Recommending Actions", ovvero quando il Consulente di Direzione ti dice: "Ascolta un cretino..."


Absit iniura verbis! Nessuno vuole offendere i consulenti, tanto meno quelli di direzione. Una cosa, però, richiede qualche approfondimento: cosa sono esattamente le recommending actions? Quando un consulente termina il proprio mandato, di norma presenta un report dove riassume cosa ha capito e appreso dell'azienda e descrive dettagliatamente cosa il cliente deve fare, appunto le recommending actions. Ci sono firms che dedicano una grande quantità di risorse nella stesura dei loro report, in quanto sono preoccupatissime che le analisi condotte e le conseguenti raccomandazioni siano convincenti e perfettamente connesse con la loro diagnosi iniziale. Molti ritengono che il compito del consulente, a questo punto, sia pienamente soddisfatto. Infatti, ha presentato un studio dettagliato con i passaggi da compiere per risolvere il problema diagnosticato. Insomma, il consulente raccomanda, il cliente decide se e quando implementare i consigli. Adesso, forse, è più chiaro cosa intendevo nel titolo. Il consulente, in questi casi, ricorda quei simpatici soggetti che ti guardano con aria di superiorità, come se tu non avessi mai capito nulla, quasi compatendoti, e ti danno "la dritta" guardandoti e dicendoti: "ascolta un cretino....". La tentazione è quella di dirgli che, proprio perché cretino, non hai voglia di dargli retta e che desse i suoi consigli a qualcun altro. Per un imprenditore o un manager una lista ordinata e ben presentata di "cose da fare" per risolvere quel determinato problema, non serve a nulla. Un report potrà essere convincente e spettacolare, ma non ha un impatto concreto sui problemi.La relazione professionale tra un consulente di direzione e il suo cliente non può esaurirsi in un pirotecnico power point. Nel Business Doctoring" non ci si può limitare a uno studio teorico del problema con conseguenti soluzioni anch'esse teoriche. Una soluzione teorica, per definizione, non può essere implementata. I consulenti escono da queste situazioni dando il torto al cliente che non ha saputo dare seguito ai loro infallibili consigli, magari per mancanza di coraggio o di abilità. Quante volte ho visto meravigliosi market survey & analysis ben in vista sullo scaffale del cliente, magari con qualche logo prestigiosissimo sulla costa. "Roba" che rimane lì, sullo scaffale per ricordargli che un bel soprammobile può costare molto meno. Il problema è che il danno d'immagine si estende a tutta la "categoria". Sì perché l'imprenditore o il manager si convincono che la consulenza non serve a nulla e che "sono tante chiacchiere, che non risolvono i problemi". Chi vende la propria professionalità in questo settore deve sempre tener presente che tutto ciò che sostiene a parole deve essere tramutatile in azioni concrete. Non è necessario che il consulente di direzione implementi personalmente le proprie raccomandazioni, è sufficiente che le trasformi in piani dettagliati e precisi d'implementazione. La soluzione non deve mai essere la soluzione ideale, ma la soluzione migliore per quel cliente, in quel momento e con le risorse di cui dispone. Non si deve mai ritenere chiuso il mandato se nella presentazione o nel report mancano gli action points: chi fa cosa, quando ed entro quanto tempo deve finire. Fidatevi di me, date ascolto a un cretino........