- Assenza di fiducia
Non stiamo parlando della ovvia e consueta fiducia che si richiede tra essere umani. Qui si pensa ad un fiducia più profonda, tanto profonda da consentire ai membri del management team di poter mostrare le loro debolezze e vulnerabilità ai colleghi, certi che non verranno utilizzate o strumentalizzate in altri contesti. Deve esistere un clima di reciproca offerta di aiuto e assistenza. Il management team deve corrispondere ad un fondamentale momento di scambio libero e sereno, per rendere le interazioni di lavoro confortevoli e costruttive. Com'è possibile vincere la naturale diffidenza reciproca? Il team builder deve lavorare azionando i necessari meccanismi che aprono ad una progressiva confidenzialità tra i membri del team. Esistono metodi collaudati che incrementano l'interrelazione tra i soggetti, aumentando il livello di conoscenza reciproca, pur rimanendo (rigidamente) sul piano lavorativo e solo marginalmente personale. - Paura del conflitto
Il conflitto, se non sfocia in sconsiderate, e al peggio violente, questioni personali, è un sintomo efficace di un ottimo livello di fiducia e stima reciproca. Diffidate dai management team presenziati da soggetti mummificati, che assentono distrattamente a tutto ciò che dicono i colleghi. State certi che in quei contesti non esiste nessuna fiducia (vedi punto precedente) e nessuna stima reciproca. Il conflitto (ripeto, non la rissa) è un atto di generosità verso i colleghi e verso le idee che esprimono. Il conflitto è l'unico strumento dialettico che consente un confronto tra posizioni diverse che tentano una sintesi di superamento delle singole posizioni. Il confronto, soprattutto in riunioni di vertice dalle quali può dipendere il futuro dell'azienda, aiuta a crescere e acuisce l'approfondimento razionale delle proprie opinioni o idee per sostenerle o abbandonarle in favore di quelle di un/una collega. Il team builder, per promuovere un clima di partecipazione anche conflittuale, deve maneggiare "materiale esplosivo" ed è bene che sia competente e preparato. Il primo step consiste nello spiegare molto bene cosa s'intenda per conflitto in un contesto aziendale e, soprattutto, in un management team. In secondo luogo, si passa ad analizzare la differenza tra conflitto e lite. Due parenti molto stretti, ma con obiettivi e modalità totalmente differenti. Per ultimo, si affronta il tema della gestione del conflitto e della sua ricomposizione, che deve assolutamente avvenire prima di lasciare la sala riunioni! - Mancanza di impegno
Impegnarsi significa sentirsi parte in causa circa la piena realizzazione delle decisioni, delle scadenze e dei piani stabiliti in sede di management team. Normalmente, se si è ben lavorato sui due punti precedenti, l'impegno ne deriva (quasi) automaticamente. In ogni caso, il team builder deve assicurarsi che ogni membro si senta direttamente impegnato in tutte le risoluzioni del management team e senta "suoi" anche i successi e gli insuccessi dei colleghi. - Paura della responsabilità
Questo timore è figlio della presenza irrisolta dei precedenti tre punti. Infatti, è sintomatico di una scarsa fiducia nei colleghi, di una paura del conflitto e di uno scarso impegno. La paura della responsabilità rappresenta una vera e propria fuga dal team, fuga che si concretizza nello stigmatizzare sempre chi ha fatto cosa e nel non sentire proprio il lavoro degli altri. La paura della responsabilità porta il soggetto ad uniformarsi sempre alla maggioranza e a non esporsi mai con proprie idee o iniziative. E' un male terribile per il team, perché chi non supera questo timore è portato a non sposare le iniziative del management team e a precisarlo anche fuori dalla sala riunioni. Il team builder deve lavorare su un punto fondamentale: chi fa parte di un management team deve esserne all'altezza e chi teme la responsabilità delle decisioni prese dal team, si chiama, necessariamente, fuori. Sconsiglio di mediare su questo punto. La paura della responsabilità è sintomatica di una personalità insicura e inadeguata a ruoli che si definiscono, per l'appunto, di responsabilità. Il team builder deve lavorare prima sui tre punti precedenti e poi verificare che tutti i membri si sentano parte in causa delle decisioni prese dal team. - Inattenzione ai risultati
Quando si parla di risultati, ci si riferisce ai risultati complessivi del management team, gli unici che contano. Se qualcuno dei membri si concentra troppo o esclusivamente sui propri obiettivi e ignora quelli degli altri, potrebbe entrare contraddizione con la strategia complessiva che il gruppo dirigente si è data. Di tutto il lavoro che un management team ha fatto, il momento principale è l'analisi dei risultati e la loro valutazione alla luce del lavoro complessivo dei singoli membri. Quando si parla di risultati si parla di grandezze misurabili e concrete. E' possibile riferirsi anche a risultati qualitativi, ma è necessario avere un ordine di grandezza di riferimento per valutare il successo del lavoro svolto. La disattenzione ai risultati vanifica tutto il lavoro interpersonale e indebolisce la credibilità del management team. Il team builder deve instillare nei componenti della squadra il desiderio costante della misurazione dei loro successi e fornire il corredo di strumenti per un'auto valutazione completa.
lunedì 15 maggio 2017
Perchè alcuni Management Team falliscono?
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venerdì 12 maggio 2017
Al bando tutti i CV con la parola "strategia"....tranne il mio!
Credo che nessun termine sia più abusato, nei job profile presenti su Linkedin, di strategia. Siamo tutti strateghi. In poco meno di vent'anni di professione ho imparato che la parola strategia si può accompagnare con un numero straordinario di sostantivi (e tutti in inglese): PR strategy, corporate strategy, communications strategy, digital strategy, social strategy, e avanti all'infinito. Confesso che qualche volta è frustrante vedere che tutti pensano di fare il tuo lavoro, senza sapere che lavoro fai. Richard Rumelt è un professore alla UCLA (University of California Los Angeles) e nel suo libro Good Strategy/Bad Strategy definisce così la strategia: "trovare il modo più efficace per dirigere e sfruttare le proprie risorse". Per essere più chiari, significa trovare il sistema grazie al quale, a parità di risorse rispetto ai competitor, si ottiene un risultato migliore. Un co-strategist è, innanzitutto, un professionista dell'opportunismo. Coglie tutte le opportunità per indirizzare le risorse verso un loro utilizzo più profittevole. E' un professionista che gestisce sia la fase "speculativa" che quella "operativa" con la massima sicurezza, integrandole. Farsi affiancare da un co-strategist significa avvalersi di un professionista che sa disegnare una soluzione ragionevole che armonizzi gli aspetti organizzativi e commerciali con quelli economici e finanziari. Non c'è una strategia di marketing o una strategia digitale o chissà cos'altro. Esiste solo la strategia dell'azienda nel suo complesso e le altre attività devono essere coerenti con questa. E' ovvio, per esempio, che il tema della comunicazione aziendale sia strategico, ma si tratta di "un di cui" della strategia generale. La strategia comprende anche i valori cui l'azienda s'ispira. Non si tratta solo di massimizzare i profitti, ma di realizzare la propria missione. Una strategia è un sistema complesso di piani e di azioni, ordinati secondo le priorità stabilite. Un co-strategist deve saper indicare tempi e modalità per mettere in atto la strategia che propone e deve essere dotato di un pensiero non convenzionale, ma razionale. Un co-strategist dovrebbe suggerire cosa fare, ma, soprattutto, spiegare "il perché". In conclusione, è necessario fare maggiore chiarezza sul concetto di strategia aziendale e cercare di evitare gli inglesismi, parola di co-strategist (...niente da fare, c'è sempre l'inglese di mezzo!).
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giovedì 11 maggio 2017
....ma alla fine, a cosa serve un coach?
Tutti noi conosciamo il Cardinale Richelieu, l'artefice della politica di Luigi XIII in Francia e in Europa nella prima metà del XVII secolo, passato alla storia per le sue grandi doti politiche e di negoziatore. Pochi, però, sanno chi fosse Fraçois Leclerc du Tremblay che, dopo aver preso i voti per entrare nell'Ordine dei Frati Minori dei Cappuccini, prese il nome di Padre Giuseppe da Parigi. Questi era uomo di grande cultura e di straordinaria capacità di "lettura" della realtà, che affiancò e consigliò il Cardinale Richelieu fino alla morte. Fu una figura determinante, un coach che esaltò le caratteristiche già straordinarie del Cardinale. Esattamente come allora, oggi i più grandi executives si affidano ai coach per crescere professionalmente e aumentare la loro capacità critica d'interpretazione del contesto nel quale operano. Anni fa i coach erano chiamati in causa per modificare alcuni comportamenti "tossici" del top management. Erano degli "educatori" che indirizzavano gli executives verso quegli atteggiamenti più consoni al ruolo. Oggi il discorso è completamente diverso. I coach sono chiamati ad esaltare le performance degli executives, intervenendo principalmente sulle loro abilità tecniche e produttive. Questo spiega perché la scelta del coach è diventata più complessa. La domanda è: le aziende ottengono valore dall'intervento dei coach? La maggior parte delle aziende che hanno utilizzato il coaching, lo riutilizzano sistematicamente. Non è una prova del sicuro valore portato, ma è certamente un forte indizio. Vediamo quando funziona e quando no il coaching. Per prima cosa è necessario che l'executive sia fortemente motivato alla crescita e al cambiamento. Forzare le cose è inutile, anzi, è dannoso. Un coach non serve per cambiare atteggiamenti e comportamenti. Chi si pone nei confronti del lavoro e degli altri in modo "inadeguato" ha un altro tipo di problemi che un coach non può risolvere (e non fidatevi di chi dice il contrario). La chimica personale è fondamentale. Quindi, prima di scegliere un coach in via definiva, è bene fare un breve periodo di prova per verificare l'intesa con l'executive. Chiunque ingaggi un coach deve aver ben chiari gli obiettivi che intende raggiungere, che devono essere essenzialmente aziendali (leadership, gestione delle risorse, decision making, change management, ecc.). Si dovrebbe evitare di far scivolare il coaching su questioni "altre" come l'equilibrio tra lavoro e vita privata o altri scopi personali, che conviene affrontare fuori dal contesto lavorativo con altro tipo di professionisti. Guardatevi da chi mescola i due ambiti. Spero che quest'articolo possa esservi di qualche aiuto nel scegliere il vostro coach che sarà anche la vostra eminenza grigia. A proposito, sapete perché si dice eminenza grigia? Perché il Cardinale Richelieu, per il colore della veste, era definito eminenza rossa, mentre il suo coach Padre Giuseppe da Parigi, per il colore del suo saio, eminenza grigia.
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